Quando, nella sua celebre biografia, Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da esso, il drammaturgo piemontese si trovò a mettere in parole l’affetto per il conte Benedetto Alfieri, l’architetto barocco, nonché cugino di suo padre e «semi-zio», scelse l’espressione: «Era quel conte Benedetto un veramente degn’uomo, ed ottimo di visceri», mutuando il significato dei visceri dall’uso antico di “sede di puri sentimenti”, inteso talvolta come sinonimo di “buon cuore”. Dopo l’Alfieri, la polisemia delle viscere è entrata nell’uso popolare dell’italiano per enfatizzare un profondo sentire – viscerale, appunto -, come drammatica metonimia dell’origine della vita (“il frutto delle viscere”), e nel lessico della psicologia come organo anatomico atto a somatizzare una muta sensazione derivante da una grave perdita.

Scavare, il romanzo d’esordio edito da Italo Svevo, di Giovanni Bitetto, classe 1992, desemantizza le viscere, le deforma e le trattiene con stoicismo, le riempie di parole d’odio e poi le fa straboccare in un lungo monologo.
Il protagonista, un letterato di discreta fortuna, evoca di notte il fantasma – di amletica memoria – dell’amico morto, un filosofo di fama internazionale che si presenta nella forma evanescente di ectoplasma, come il solo destinatario di un elogio funebre fatto di invettive e malinconiche memorie. I due compagni di scuola, fratelli e figli della classe media, cresciuti nel nichilismo della provincia meridionale, esperiscono la caduta di ogni istituzione, politica e parentale, eleggendo Bologna per la ricerca dell’anonimato, l’avvio delle proprie e personali indagini epistemologiche. Il narratore sceglie la letteratura, il silente narratario, la filosofia marxista.

È da questa dicotomia che i due amici si tramutano in rivali, accanto all’individualismo di una società che fomenta il carrierismo e l’ambizione senza scrupolo, perfettamente declinati nella descrizione delle logiche clientelari dell’editoria e nel monolitico ambiente delle gerarchie accademiche. La rivalità dei protagonisti, che li vede battagliarsi per tutta la vita e che sancisce la vittoria dello scrittore sull’amico, ma solo nel destino dell’essergli sopravvissuto, ricalca la tradizionale dialettica tra filosofia e letteratura, e la loro impossibilità di ignorarsi. «L’antico disaccordo» della Repubblica di Platone tra la solidità del concetto filosofico e l’ideale letterario – inteso qui come doxa fallace parmenidea – rimane il solo dualismo plausibile.

Negli ambienti domestici di Scavare, in cui si trascinano famiglie disfunzionali, interrotte, covanti il germe di cellule tumorali, si intravede «quell’opacità del mondo» che attrae i filosofi e di cui parla Calvino in Una pietra sopra. La metafora calviniana della scacchiera, apparsa per la prima volta sul prestigioso Times Literary Supplement, vuole i filosofi intenti a fissare le regole di un gioco per cui «un numero finito di pedine, muovendosi su una scacchiera, esaurisce un numero forse infinito di combinazioni»; e in questo ordine «arrivano gli scrittori che agli astratti pezzi degli scacchi sostituiscono re, regine, cavalli, torri […] ecco le regole del gioco buttate all’aria».

La letteratura imposta un nuovo orizzonte di idee, espandendo l’ordine costituito dalla filosofia nel nome della sintesi, e muove «una guerra in cui i due contendenti non devono mai perdersi di vista ma nemmeno mantenere rapporti troppo ravvicinati». Bitetto tenta l’«atto di crasi» tra una filosofia assorbita dall’Accademia, istituzione che ha consumato il proprio totem, e una letteratura lacerata dalla filiera dell’editoria contemporanea, autoreferenziale, fatta di arrivismi e spicciole celebrità. Si risolve in una mera illusione. Non esistono più catarsi per la mente. Non c’è narrazione senza menzogna.

Alla discesa negli inferi nel momento dell’inumazione del cadavere dell’amico corrisponde un horror vacui che necessita di essere scavato dall’interno. L’autore lo fa mediante una prosa scandita da un lessico di raffinata compostezza, nella quale i mai menzionati nomi dei protagonisti e il tempo della storia, scoordinato e astratto dalla contingenza, pretendono l’ascensione all’universalità dell’archetipo. Si sentono talora gli echi della metanarrazione del postmodernismo nordamericano, il retaggio culturale e accademico bolognese, l’eredità di Camere separate di Tondelli nella comune analisi antropologica della provincia italiana, patria della narrazione degli scarti. Il Meridione, svuotato di un orizzonte simbolico, è paralizzato nell’apatia della volontà, nella dissipazione dello stato coscienziale, e trova fallaci panacee nella Chiesa, nella televisione e nelle droghe.

Questi figli del Sud, che ereditano le debolezze di generazioni di padri caduti per selezione naturale, sono stati ormai corrotti, capaci di riconoscersi solo nell’insignificanza di un dolore, che si rivelerà anch’esso antidemocratico. Ebbene, sfuggendo alla noia della provincia e scavando il campo delle possibilità del lavoro intellettuale, questi scarti materici arriveranno alla triste e ultima consapevolezza che l’iniziazione alla vita avviene solamente attraverso il decomporsi del sistema cellulare.