In neanche una settimana, il governo norvegese prima e quello olandese poi hanno sospeso il trattato di Schengen. Se dicessimo che le due mosse sono una fuga in avanti con l’obiettivo di allinearsi alla futura Amministrazione Trump, non avremmo altro da scrivere. L’Europa starebbe già iniziando ad adeguarsi a un nuovo corso politico, fatto di atteggiamenti muscolari e barriere. Tuttavia, ci azzeccheremmo solo in parte. Questo rischioso ritorno al passato non si limita a essere frutto di suggestioni odierne.
Il governo Støre a Oslo e quello presieduto da Dick Schoof ad Amsterdam – di cui l’ultra euroscettico Geert Wilders fa da eminenza grigia – hanno soltanto dato un’accelerata a un problema che comunque si presenterà alla prossima Commissione Ue. Un mese e mezzo fa, quindi in tempi non sospetti rispetto al voto in America, quattordici governi Ue, insieme a Norvegia, Svizzera e Liechtenstein, avevano inviato un appello a Bruxelles chiedendo nuove regole per rendere più rigorose le operazioni di rimpatrio dei cittadini non europei. Nelle stesse settimane, sono iniziati gli spostamenti di stranieri in Albania dal territorio italiano. Con il corollario di polemiche e frizioni che sappiamo. Magnus Brunner, infine, candidato austriaco per la Commissione entrante, con portafoglio sulla migrazione, ha espresso in audizione il desiderio di una maggiore collaborazione tra l’Ue e i Paesi di origine per ridurre i flussi alla fonte. Inoltre, ha dichiarato che intende supportare il rafforzamento delle frontiere esterne europee, per migliorare la sicurezza interna e rispondere alle crescenti preoccupazioni pubbliche su immigrazione e sicurezza.
Di fronte a tutto questo, il blocco norvegese e olandese di Schengen appare come inevitabile. Prima o poi qualcuno l’avrebbe fatto. È un gesto grave, però, che nasce da un contesto demografico non così drammatico come la politica pretende di far credere. L’idea che l’Europa sia vittima di una pressione migratoria, che mette in discussione le risorse pubbliche, sottrae lavoro e soprattutto compromette la sicurezza non corrisponde alla realtà. Stando al monitoraggio di Frontex, per quanto riguarda i flussi via mare e via terra, si avrebbe una diminuzione complessiva del 34% nei passaggi irregolari rispetto al 2023. Nel 2022, ultimo rilevamento disponibile, la Commissione Ue ha contato 4,3 milioni di immigrati in Ue, di cui solo una piccola quota è giunta irregolarmente sul nostro territorio. Si tratta soprattutto di persone che provengono da Africa, Medio Oriente e Ucraina, ovvero da conflitti e crisi umanitarie in corso. Alla guerra russo-ucraina si affiancano le crisi dimenticate di Siria, Somalia e Afghanistan. Solo per fare alcuni esempi.
Tuttavia, come si diceva, è il percepito a prevalere. Ancora a maggio scorso, quindi in prossimità delle elezioni europee, El Pais pubblicava un sondaggio da cui emergeva che il 70% degli intervistati – spagnoli, ma non solo – riteneva che il proprio Paese avesse esagerato nell’accoglienza. La politica che da decenni alimenta un messaggio di anti-immigrazione non ha fatto altro che soffiare su questo sentiment per trasformarlo in un fuoco che sarà difficile da domare. Il messaggio di ottimismo di Angela Merkel, “Wir schaffen das!” (Possiamo farcela!), lanciato durante la crisi migratoria del 2015, ha fatto spazio alla minaccia di Viktor Orbán di dare ai richiedenti asilo un biglietto di sola andata per Bruxelles come protesta contro le multe Ue inflitte all’Ungheria per le sue violazioni delle norme sull’asilo. Violazioni che hanno trovato concretezza nella costruzione di muri e reticolati di sicurezza lungo la frontiera magiara.
«Olanda e Norvegia seguono quanto già fatto in passato da Germania e Francia», ricorda Marco Lombardi, sociologo dell’Università Cattolica. «La libertà di movimento senza controlli è sempre stata percepita come la vera conseguenza di essere europei. Chiudere le frontiere significa chiudere l’Europa, una risposta che è in parte politica e in parte securitaria perché ha effetti su entrambe le dimensioni. La conseguenza maggiore è sul futuro dell’Unione. Che “Non è più il mio Paese”, come diceva un vecchio slogan. E così si evidenzia tutta l’ambiguità dei singoli governi, che, invece di collaborare per difendere una frontiera che dovrebbe essere comune, abbandonano quella prospettiva per ripiegare sulle frontiere interne. Testimoniando così l’obsolescenza del progetto unitario del continente».