È successo di recente quando il sito Intercept Brasil (poi seguito da altri grandi giornali, cominciando dalla Folha de sao Paulo, tempio della finanza paulista) ha pubblicato, col contagocce, una parte dei messaggi scambiati dall’allora giudice Sérgio Moro e Deltan Dallagnol, il coordinatore della Operazione Lava Jato, la mega inchiesta sulla corruzione politica che ha decapitato quasi tutti i partiti e messo in galera i principali politici e i più grandi imprenditori ridisegnando, di fatto, la geografia politica brasiliana. Quel terremoto ha spalancato le porte del Planalto a Jair Bolsonaro, riuscito ad accreditarsi come outsider nonostante sieda in Parlamento da 28 anni, eletto al ballottaggio con il 53% dei voti provenienti in gran parte dal Brasile bianco, informato e ricco.  Il contenuto dei dialoghi filtrato è così esplicito da non lasciar dubbi sulla non imparzialità dei giudici incaricati dei processi che hanno incarcerato, tra altre centinaia di persone, l’ex presidente Lula da Silva costretto a ritirarsi dalla corsa al Planalto.

L’imbarazzo degli interessati è ancora totale. Nessuno ha smentito il contenuto dello scoop che mostra come Moro influisse pesantemente nella raccolta degli indizi che poi era chiamato a giudicare. Basterebbe questo, secondo la legge brasiliana, per invocare la nullità dei processi. Il fatto che l’oggetto dello scoop sia stato raccolto illegalmente, dettaglio fondamentale che l’autore dello scoop nega, non lo rende utilizzabile per procedere contro i giudici. Andrebbe acquisito tutto di nuovo per via legale. È utilizzabile invece dalla difesa dei condannati. Gli avvocati di Lula si sono scatenati. La sentenza di condanna dell’ex presidente è molto lacunosa ed è stata da tempo smontata, punto per punto, da un esercito di giuristi.

Lula è stato in galera perché condannato per i lavori per la ristrutturazione di un attico, in una località balneare del litorale di San Paolo. Quella ristrutturazione, secondo i giudici di prima e secondo grado, nasconderebbe il pagamento di una tangente di circa un milione di euro, da parte di una impresa di costruzioni beneficiata dal sistema di tangenti di cui Lula è considerato essere stato a conoscenza. La difesa dell’ex Presidente ha sempre contestato, tra altri moltissimi rilievi, il fatto che la proprietà di quell’appartamento non può esser fatta risalire a Lula perché non esiste un documento di proprietà, un atto di compravendita, nulla. Moro disse in proposito che “nei reati di riciclaggio il giudice non può attenersi unicamente alla titolarità formale dei beni” sostenendo che quell’attico fosse di fatto a disposizione dell’ex Presidente. Che, però, non l’ha mai abitato nemmeno per un giorno.

Prima dell’apertura del processo Sergio Moro rilasciò una lunga intervista al quotidiano “Folha de Sao Paulo”. Un’interessante intervista-manifesto. Questi i passaggi principali. Dice Moro: “Purtroppo io vedo l’assenza di vigore da parte delle autorità politiche brasiliane contro la corruzione. Rimane l’impressione che la lotta contro la corruzione sia un obiettivo unico ed esclusivo di poliziotti, pm e giudici”. Alle critiche per aver accordato benefici a colpevoli prima ancora che firmassero il contratto di “delação premiada” (delazione premiata, la lingua brasiliana è più schietta della nostra in questo caso) scarcerazione immediata o rinuncia a procedere giudiziariamente in cambio della denuncia a carico di terze persone, Moro risponde che “il diritto non è una scienza esatta”. Sull’onda di questo personaggio da giustiziere inflessibile riuscito ad arrestare la volpe Lula (così Moro s’è sempre presentato al mondo) ha accettato, poco tempo dopo, la nomina a ministro della Giustizia avuta da un Presidente che mai sarebbe diventato tale senza quell’arresto. Non bastava questo, a gridare allo scandalo?