A dare il là all’ultima commedia degli equivoci è stato l’inusitato risultato delle elezioni sarde dove c’è stata la squillante vittoria di Alessandra Todde espressa dal M5S. Da essa quasi tutti hanno tratto conseguenze politiche non suffragate invece dalla realtà. Per Schlein, Conte, ma anche per gli altri esponenti dell’opposizione e per i principali giornali, essa è stata il segno che “il vento stava cambiando”. Questo è stato il leit motiv di tutta la fase successiva dalle elezioni sarde a quelle in Abruzzo. Però se tutti coloro che si sono sbilanciati molto su queste valutazioni avessero guardato le cifre, sarebbero stati molto più cauti. In primo luogo Alessandra Todde ha vinto di un soffio, per 1600 voti. In secondo luogo la coalizione di centrodestra è risultata superiore di circa 4 punti, sia del suo candidato, sia nei confronti della coalizione di centrosinistra. La verità molto banale è che sia Matteo Salvini difendendo a lungo Solinas presidente uscente, sia Giorgia Meloni puntando sulla candidatura del sindaco di Cagliari Paolo Truzzu, avevano sbagliato clamorosamente candidati. Sarebbe bastato guardarsi intorno per capirlo: Solinas era valutato all’ultimo posto come candidato di regione uscente, Paolo Truzzu era al quart’ultimo posto come sindaco di capoluogo. La controprova di tutto ciò sta nel fatto che alle elezioni egli è stato sopravanzato di 20 punti proprio nella sua città dalla candidata Todde.

Le elezioni abruzzesi si sono svolte all’insegna dell’euforia da parte di coloro che, nel centrosinistra, più credevano al campo largo. In più l’ipotesi è stata sublimata da parte di sofisticati teorici come Bettini, Zingaretti e Bersani. Sull’altro versante nel centrodestra molti erano nervosi e preoccupati. Il fatto è che nelle elezioni per i sindaci e per i presidenti di Regione le figure dei candidati svolgono un ruolo fondamentale. Allora il centrosinistra aveva scelto il candidato giusto e Giorgia Meloni aveva scelto quello sbagliato. Punto e basta. Però con questo presupposto, nella speranza-illusione che il campo largo fosse davvero una carta decisiva in occasione delle elezioni abruzzesi – a parte la Schlein che sta facendo carte false per il raggiungimento di questo obiettivo – tutti gli altri da Calenda a Renzi, da Fratoianni alla Bonino e Bonelli, hanno operato la loro conversione e hanno aderito alla candidatura D’Amico. Se non che con un presidente uscente come Marsilio, che aveva dato una prova discreta come governatore, e al netto del fatto che ogni sera tornava a casa a Roma – cosa su cui il centrosinistra ha impostato la sua campagna a elettorale – non c’è stata partita: Marsilio e il centrodestra hanno vinto con circa 5 punti di distacco. Le cose però non si sono fermate qui.

È emerso in modo imbarazzante che il campo largo era solo una espressione mediatica. Già nel corso delle elezioni Calenda ha tenuto più volte a ribadire che per lui si trattava di una esperienza locale non trasferibile automaticamente in altre situazioni locali e tantomeno a livello nazionale. Poi, ad elezioni avvenute, con quel risultato il campo largo è diventato un campo di battaglia. Conte, che avrebbe dovuto portare un contributo decisivo per la vittoria del candidato e che invece ha perso gran parte dei suffragi ottenuti alle precedenti elezioni, ha detto che il salasso subito dal M5s era avvenuto per la presenza nella coalizione di personaggi equivoci o negativi come Calenda e come Renzi. A sua volta Calenda ha confermato tutta la sua repulsione per i Grillini in generale e per Conte in particolare visto la negatività dei suoi legami internazionali con Putin. E con Trump.

Questo dibattito così “costruttivo” si è tramutato in una sorta di “piece teatrale” a torte in faccia quando si è passati al confronto sul candidato presidente in Basilicata. Gianfranco Pasquino, un raffinato politologo oggi di sinistra, ha sottolineato che una delle difficoltà principali è costituita dal fatto che la forza politica determinante per la composizione del campo largo è formata da Conte e dal M5S, che dovrebbero svolgere anche un ruolo di mediazione. Ma Conte e il suo partito svolgono un ruolo esattamente opposto. Conte dà via libera al campo largo a livello locale solo se il candidato sindaco o presidente appartiene alla sua area, in caso diverso o si smarca o alza il prezzo o butta tutto per aria. Non parliamo di Calenda e di Renzi che sono incompatibili sia fra di loro sia con il M5s. Poi ai livelli locali avviene anche che il Pd, che è un partito localmente strutturato, spesso non sopporta i diktat grillini anche se essi sono accettati dalla Schlein e dal livello nazionale. Il fatto è che al di là dello scontro a torte in faccia svoltosi intorno alla scelta del candidato per la Basilicata (ma anche in Piemonte, e in alcuni comuni importanti come Firenze non si profilano situazioni migliori) esiste un dato politico di fondo.

Visto l’andamento disastroso delle elezioni del 25 settembre 2022, una parte del Pd, guidata da Elly Schlein, è disposta a tutto pur di realizzare il cosiddetto “campo largo” in effetti imperniato sul M5s ma aperto anche ad altre forze facendo leva sul loro opportunismo. Se non che oramai è evidente che il campo largo è un campo ultra delimitato da tutti i punti di vista. Lo è dal lato centrista riformista: malgrado tutti gli sforzi infatti Calenda e Renzi non reggono l’alleanza con i grillini. E altrettanto vale per Conte e il M5s nei loro confronti. A sua volta il M5S è di per sé un partito autoreferenziale, che trova molte difficoltà a levarsi in alleanze politiche con tutti anche con il Pd. In secondo luogo la sua posizione pacifista-neutralista di fatto filo putinista è del tutto in contraddizione con quella del Pd. E in ogni caso spesso collide con le aree riformiste presenti in quel partito.

Il problema di fondo però si ripropone proprio per il Pd in quanto tale. Dopo le elezioni del 25 settembre 2022 e a maggior ragione dopo la segreteria Schlein, il Pd, da partito tendenzialmente riformista qual era prima, è diventato, per usare un termine valido per tutt’altra problematica, un partito fluido, in cui si mescola insieme tutto e il contrario di tutto, movimentismo, riformismo dimezzato, europeismo, pacifismo, atlantismo vergognoso di sé stesso. In sostanza un partito privo di una identità definita, ma che ne ha al suo interno diverse ma profondamente contraddittorie fra di loro. Un partito così contraddittorio non è certamente egemone ma rischia di essere subalterno nei confronti di altri, in primo luogo di Conte e del M5S. Una difficilissima via d’uscita ci sarebbe ma richiederebbe un lavoro politico e culturale profondo e di medio periodo: la ridislocazione su una coerente posizione riformista, con la ridefinizione conseguente delle posizioni sul piano programmatico e dei riferimenti sociali. La stessa battaglia di opposizione al centrodestra dovrebbe essere fatta in una chiave riformista e non con l’approccio confusionario che oggi è il tratto caratteristico di un partito che in questo modo non è più erede di nessuno, tanto meno di un partito comunque strutturato e serio qual era il PCI.