Matteo Orfini, parlamentare dem, già presidente del Partito democratico, è uno che non le manda a dire.

Dopo la sconfitta elettorale alle regionali in Lombardia e nel Lazio, nel Partito Democratico invece di un dibattito sembra si sia aperta la caccia ai responsabili. E’ questo è il modo per condurre una riflessione seria?
Direi proprio di no. La discussione si è aperta quando nel Lazio e in Lombardia stavamo ancora scrutinando. Non era neanche rispettoso per i nostri militanti che erano nei seggi. Mi è parsa anche una discussione molto strumentale. Nel senso che sono due regioni che hanno storie diverse. C’è una vicenda differente da una parte e dall’altra e anche risultati da leggere dentro una sconfitta comunque molto chiara. Con un dato, il più drammatico per tutti, che è quello della scarsa affluenza. Certo c’è un calo fisiologico dovuto ad elezioni regionali fuori da un contesto nazionale: 5 anni fa votammo con le politiche. Stavolta non è stato così. Era da mettere nel conto una affluenza più bassa però le dimensioni sono sorprendenti e segnano un ulteriore passaggio della disaffezione dei cittadini e soprattutto delle fasce più popolari alla partecipazione democratica. Se è un problema per tutti lo è ancor più per la sinistra. Dentro questa astensione c’è la nostra sconfitta elettorale. Ho fatto prevalentemente campagna elettorale nella mia regione, il Lazio, in una condizione molto difficile. Perché c’è una destra comunque forte dopo la vittoria alle politiche, è anche la regione di Giorgia Meloni. C’era una divisione nel campo del centrosinistra che ci ha indubbiamente indebolito. Ma anche qui occhio…

Nel senso?
Nel senso che cinque anni fa noi vincemmo perché la destra era divisa e questa volta è successo il contrario. D’Amato ha preso una percentuale superiore a quella con cui come Pd vincemmo la volta scorsa. Cinque anni fa vincemmo perché c’erano i 5Stelle molto alti e perché c’era Pirozzi candidato e una destra divisa. Quella nel Lazio fu anche una vittoria politica, oltre che elettorale, figlia della capacità di dividere la destra. Non c’è dubbio, però, che dopo dieci anni di governo evidentemente non siamo riusciti ad arrivare competitivi alle elezioni e questo ci deve far riflettere.

Nella riflessione a caldo sulla sconfitta elettorale, Elly Schlein, che contenderà a Stefano Bonaccini la leadership del Pd alle primarie del 26 febbraio, ha affermato “è ora di cambiare i dirigenti”.
Penso fosse una autocritica per la sua stessa mozione. Io l’ho letta così. Il coordinatore della sua campagna elettorale si chiama Francesco Boccia che è stato tutto in questi anni. I principali sostenitori della sua mozione sono i principali protagonisti di questi cinque anni, da Zingaretti a Franceschini, da Orlando a Provenzano. Noi possiamo parlare di classe dirigente e possiamo parlare di linea politica. Se oggi siamo nei sondaggi al 15% forse dovremmo riflettere anche di cosa ci sia stato di sbagliato in questi anni e di chi ci ha portato sulla linea sbagliata. Parliamo di tutti i principali sostenitori di Elly. E lei stessa è stata protagonista della campagna delle politiche. Adesso facciamo finta di dimenticare tutto, ma siamo entrati in campagna elettorale con Letta frontman e di fatto in un ticket politico con Elly Schlein. La manifestazione di Piazza del Popolo, conclusiva della campagna elettorale, è stata chiusa da loro due. In televisione per un mese c’erano loro due. Io sono d’accordo: bisogna cambiare radicalmente. Ed è per questo penso che si debba votare Stefano Bonaccini. A me non piace questo gioco a personalizzare. Siamo in una fase talmente delicata che serve il contributo di tutti. Penso che si debba cambiare linea politica rispetto a quella di questi anni, che è stata la rinuncia alla funzione del Partito democratico immaginando che i problemi si risolvessero solo con la politica delle alleanze. E questo ha prodotto un Pd debolissimo e anche incapace di fare alleanze.

E tutto questo con una destra che va avanti determinata sulla sua strada. Il voto sul Decreto sicurezza e anti Ong, quello sul rave, l’autonomia differenziata…
La destra fa la destra. Noi non dobbiamo spaventarci di questa destra. Sicuramente è forte ma la si può battere. Intanto bisogna ritrovare il coraggio di sfidarla culturalmente come credo stiamo provando a fare. Sul decreto rave, su quello contro le Ong, sulla legge di bilancio, in Parlamento, pur in una condizione difficilissima nella vita del Pd, durante una fase congressuale, siamo stati oggettivamente la guida dell’opposizione. Non è un caso che quando attaccano in modo teppistico, come sulla vicenda Cospito, l’attacco è contro il Pd e non contro le altre forze di opposizione. E questo perché noi siamo la guida delle opposizioni. E c’è un altro dato politico che va considerato quando si discute di una destra tutt’altro che invincibile.

Vale a dire?
L’agenda di priorità sulle quali loro sono partiti, dimostra la necessità di rassicurare identitariamente il loro elettorato perché fanno una grande fatica invece a trovare risposte ai problemi dei cittadini. Sulla crisi sociale, sui problemi del lavoro, sulle difficoltà economiche delle famiglie, sulla fatica delle imprese, sulla crisi dei commercianti e degli artigiani, sulle difficoltà delle partite Iva, su tutti i temi che riguardano la vita dei cittadini, sui quali Giorgia Meloni ha speculato dall’opposizione, la destra non è riuscita a trovare una risposta fin qui. E quindi cerca di mascherare questa fatica con battaglie che parlano alla pancia del loro elettorato. Questo può funzionare per qualche mese ma alla lunga il bluff sarà svelato. Noi dobbiamo essere consapevoli che sarà una battaglia lunga, difficile, ma che la si può vincere. Serve però un grande partito che sappia ricostruire e ritrovare la voglia di conquistare i voti.

Questo significa visione, identità, progetto. Ma anche alleanze. E’ possibile realizzare questo “campo largo”, evocato con passione da Goffredo Bettini, con Conte e Calenda?
Il disastro che noi oggi siamo chiamati ad aggiustare è il frutto avvelenato di quattro anni passati a parlare solo di alleanze, di campo largo, senza pensare cosa avrebbe dovuto fare il Partito democratico. Per questo non mi convince quello che sostengono Elly, Goffredo, Boccia, Orlando, Franceschini. Sembra che non ci siano state le politiche. Che non ci sia stata la storia di questi anni. Il problema di questi anni è che noi abbiamo sacrificato alla ricerca delle alleanze la funzione del Pd. Il Pd a cosa serve?

Bella domanda. Dia lei una risposta.
Serve a cambiare il Paese. Noi lo abbiamo fatto per questo. La sinistra è cambiamento. Un partito progressista vuole cambiare gli equilibri del Paese a favore dei più deboli. Noi abbiamo governato anni con la parola d’ordine che è stata “responsabilità”. Che ha significato sacrificare alla ricerca degli equilibri di governo e di una strategia delle alleanze la funzione del Pd, cioè la funzione di un partito che vuole cambiare le cose. Così facendo, e pensando, siamo diventati un partito conservatore, non una forza politica progressista. Perché gli equilibri li vogliono mantenere i partiti conservatori. Oggi io vedo Elly e tutti quelli che la sostengono, che con una operazione gattopardesca incredibile invocano la sinistra, riproponendo però la strategia che la sinistra l’ha distrutta in questi anni, anzi l’ha appaltata ad altri. Una strategia che ha considerato lo strumento per prendere i voti dei ceti popolari del Paese non il Pd ma i 5Stelle, delegando la nostra funzione ad altri. E oggi ci ripropongono esattamente la stessa ricetta che ci ha portato al 15%. Dov’è l’innovazione? Dov’è la novità? Dov’è il nuovo? Dov’è la sinistra? C’è ancora la subalternità alle alleanze, c’è ancora l’idea che noi dobbiamo fare una discussione tutta politicista, politologica. Poi per carità, le alleanze vanno fatte, nessuno discute di questo. Però le politiche sono tra cinque anni. Intanto pensiamo a recuperare la capacità del Pd di essere forza di cambiamento e convincere gli italiani.

Se le primarie del 26 febbraio dovessero ribaltare il risultato del voto degli iscritti, che scenario si aprirebbe?
Il voto delle primarie amplierà, come è sempre stato, il distacco che c’è tra gli iscritti, tra Bonaccini e Schlein. Noi dobbiamo lavorare, tutti, perché cresca la partecipazione. Intanto va registrato che il distacco che oggi c’è tra gli iscritti, è uno dei più larghi nella storia: Zingaretti era molto più vicino a Martina, Renzi a Cuperlo. Un distacco così grande tra gli iscritti c’è stato molto raramente nella storia delle primarie, almeno di quelle recenti. E siccome gli iscritti al Pd non è che sono dei sociopatici scissi dalla realtà, ma sono una rappresentanza dei nostri elettori, accadrà quello che è sempre accaduto, cioè che al crescere della partecipazione aumenterà il vantaggio di Bonaccini, come peraltro certificano i sondaggi e la percezione della realtà.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.