Sciascia politico: l’intellettuale che odiava il potere

In un convegno romano, “Sciascia primo, ultimo e postumo” (undicesimo Colloquium, curato da Franco Contorbia e dagli Amici di Sciascia), si è tra l’altro discusso “dell’itinerario politico” dello scrittore, testimoniato dal suo impegno politico diretto, ma anche dalla tensione ideale che anima tutti i suoi libri.

Da una parte quell’impegno si è tradotto in alcune esperienze concrete (dal 1975 al 1983: schierato con il fronte del referendum sul divorzio, poi indipendente nella lista del Pci alle elezioni comunali palermitane, infine deputato radicale al Parlamento) e dall’altra percorre l’intera sua opera – narrativa, saggistica, giornalistica -, e si potrebbe riassumere in una continua, inesausta meditazione sul potere, sorretta dall’idea che tra potere e verità vi sia incompatibilità. Il potere vuole solo una cosa: autoconservarsi, con ogni mezzo.

L’unica verità che gli interessa è una verità efficace, utile a tale fine (non si tratta tanto di un giudizio moralistico quanto di una realistica presa d’atto). Nella radicalità di questa formulazione Leonardo appartiene alla grande famiglia novecentesca degli intellettuali eretici del ‘900, a prevalente formazione libertaria, quella che comprende Simone Weil (per la quale i partiti hanno tutti una segreta vocazione totalitaria), Camus (si veda la polemica con Sartre a proposito della verità sull’Urss), Chiaromonte e Orwell (di cui scrisse uno splendido necrologio), fino a Pasolini (con cui Sciascia ebbe a fraternizzare in modo particolare).

Il ritratto che fa di Moro (nell’Affaire Moro), un ritratto pure intriso di dolorosa pietas, è degno del suo Manzoni: «Preda della più antica stanchezza, della più profonda noia», dove perfino l’ironia era appannata da quella stanchezza e da quella noia; e soprattutto Moro aveva maturato una conoscenza «tutta in negativo» della natura umana. Viene in mente il famigerato aforisma andreottiano: «A pensare male degli altri si fa peccato, ma ci si coglie». Ora, mi chiedo, una antropologia di questo tipo non è la esatta negazione della politica? Non è l’essenza dell’antipolitica? La politica infatti, oltre ad essere una tecnica per la conquista e gestione del potere, si definisce come arte di creare amicizia, o almeno così la intendevano Aristotele e Cicerone. Per Aristotele l’amicizia serve a «tenere unite le città», mentre per Cicerone deve essere il fondamento della civiltà che rinascerà dopo la guerra civile, poiché la benevolenza genera società. L’amicizia, sottolineava Hannah Arendt, è un fatto politico, non privato: collaborazione, fiducia e lealtà, rispetto reciproco, relazione amichevole tra le persone sono alla base del legame sociale (non la diffidenza reciproca e il pensar male!).

Ripassiamo ora velocemente i suoi rapporti con le due grandi “chiese” simmetriche della nostra politica, il Pci e la Dc.
Emanuele Macaluso ci ha ricordato recentemente che Sciascia non aderì mai al Pci pur votando il partito che difendeva la povera gente, i minatori e i contadini. È nota la sua battuta: «Non c’è che la sinistra per fare una buona politica di destra»(nella intervista di Nico Perrone che uscì su il manifesto nel 1978, in seguito libretto Archinto, in versione integrale, 2015). Quale destra ha in mente? Direi soprattutto la Destra storica liberale e laica, quella del pareggio di bilancio, del senso dello stato, quella del rigore e del buon governo, che precede il trasformismo della Sinistra di Depretis. Quando si presentò alle elezioni siciliane lanciò la proposta del “buon governo a Palermo”. Poi, eletto, si dimette nel marzo del 1977, fortemente deluso dal compromesso storico.

Da allora i rapporti di Sciascia con il Pci peggiorarono fino alla rottura. E fino alla candidatura nel 1979 nella lista di Pannella, e all’impegno in Parlamento che si conclude nel 1983. Anche nella sua narrativa, dal Contesto a Candido, lo scrittore prende sempre più di mira il Pci, le sue “ambiguità” e i suoi “giochi delle parti”, il suo spirito chiesastico e il suo dogmatismo – la sua indifferenza alla verità, cui sempre sarà da preferire la ragion di partito – e testimonia un avvicinamento alla tradizione libertaria.

Per quanto riguarda la Dc, Sciascia si sofferma, nella intervista, e con toni insolitamente severi, sul cinismo di Andreotti: «Devo dire che Andreotti non mi piace. Non mi è mai piaciuto. Non credo nemmeno che sia l’uomo di grande intelligenza celebrato anche dai comunisti». Non dobbiamo qui processare nessun uomo politico, ma certo la durezza del giudizio di Sciascia colpisce perché va radicalmente contro alcune mitologie dell’epoca. L’itinerario politico di Sciascia si traduce in una critica della politica, o meglio di una politica esclusivamente machiavellica che, nel bene e nel male, ha come modello fondamentale la guerra, e nell’immaginare una politica ridefinita, basata sulla verità (senza la quale si possono anche raggiungere dei risultati pratici ma non c’è democrazia, come leggiamo nel Gorgia di Platone) e sulla amicizia (fonte di pace e di giustizia). A ben vedere una visione che lo avvicina alla migliore tradizione terzaforzista, a quel luminoso pamphlet che scrisse Bobbio nell’ultima fase, Elogio della mitezza, assumendo la mitezza come virtù sociale.