Ma lo sciopero dei magistrati contro la riforma Cartabia di Csm e ordinamento giudiziario è legittimo? La domanda non è affatto oziosa o inutile, almeno per chi non crede che ci troviamo di fronte a una prassi irreversibile (im)posta da un potere dello Stato che non conviene contraddire o inimicarsi. Non solo, infatti, non esiste nessuna disposizione legislativa che attribuisca espressamente ai magistrati il diritto di sciopero ma dalla ricostruzione del quadro istituzionale e costituzionale emergono fondate ragioni per negarlo.

Già oggi vi sono alcune categorie di lavoratori pubblici cui, sebbene svolgano funzioni pubbliche di minor rilievo rispetto a quelle dei magistrati, è vietato scioperare: i militari (art. 1475.4 d.lgs. 66/2010); il personale della polizia di Stato se lo sciopero può pregiudicare “le esigenze di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica o le attività di polizia giudiziaria” (art. 84 l. 121/1981); il personale della polizia penitenziaria durante “il servizio di sicurezza degli istituti penitenziari” (art. 19.13 l. 395/1990). Tutti soggetti la cui libertà di associazione sindacale, correlata – anche storicamente – al diritto di sciopero, è parimenti limitata (è già andrebbe discusso sulla natura di fatto sindacale dell’Associazione nazionale magistrati). “Ebbene, si può dire forse che la Magistratura si trovi in una posizione diversa da quella dei menzionati pubblici funzionari?”

Lo sciopero dei magistrati non è espressamente vietato, ma nemmeno, come detto, espressamente previsto. L’unica fonte che l’ammette è il Codice di autoregolamentazione che l’Associazione nazionale magistrati ha (ovviamente) approvato il 5 maggio 2004, le cui modalità di esercizio sono state valutate “idonee” dalla Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali ai fini della garanzia delle prestazioni essenziali durante lo sciopero (delibera n. 04/566 del 21 ottobre 2004). Si tratta quindi di un giudizio formulato da un’autorità amministrativa di garanzia in relazione solo alle modalità di esercizio ma non certo alla legittimità di chi lo esercita. Di contro l’unica legge che regolamenta il diritto di sciopero – quella nei servizi pubblici essenziali (l. 146/1990) – espressamente include l’amministrazione della giustizia tra i servizi e le prestazioni indispensabili che devono essere garantiti per consentire il godimento dei diritti della persona costituzionalmente tutelati, specie ovviamente quando si tratti di provvedimenti cautelari ed urgenti.

In tale quadro d’incertezza normativa, è ai principi costituzionali che bisogna ricorrere. Principi da cui traggo “l’avviso che uno sciopero dei magistrati è giuridicamente inammissibile”. “Lo sciopero è senza dubbio un diritto riconosciuto dalla Costituzione” ma “non è un diritto illimitato” perché, secondo l’art. 40 Cost. “si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano”. “È vero che questi limiti – la cui precisazione il precetto costituzionale demanda e riserva al legislatore ordinario – non sono stati ancora da quest’ultimo individuati e sanciti, come pur sarebbe stato auspicabile; ma non è men vero che alcuni di essi già esistono, in quanto derivano direttamente e immediatamente da altri principi e precetti della Costituzione, e si devono pertanto considerare operanti anche se non si è ancora avuta la precisazione legislativa di cui poc’anzi ho fatto cenno”. Tali limiti, nel caso dei magistrati, derivano “dalla necessità di contemperare le esigenze dell’autotutela di categoria con le altre discendenti da interessi generali, che trovano diretta protezione in principi consacrati nella stessa Costituzione”.

Da questo punto di vista non c’è dubbio che i magistrati esercitano una funzione essenziale in quanto sono “investiti di una funzione sovrana” “Ed è proprio in considerazione del carattere sovrano della funzione esercitata che la Costituzione assicura ai magistrati speciali guarentigie e uno status particolarissimo, che sarebbe superfluo qui ricordare. Ma a queste guarentigie e a questo status non possono non corrispondere speciali responsabilità, obblighi e doveri, tra i quali quello di assicurare la continuità di una funzione essenziale, sovrana, insuscettibile di interruzione”. Diverse sono le disposizioni costituzionali “da cui chiaramente risulta quella che si potrebbe definire necessaria continuità della funzione”. La Costituzione, infatti, afferma che tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi (articolo 24); impone l’obbligo al pubblico ministero di esercitare l’azione penale (articolo 112); pone la polizia giudiziaria – alla quale, come si è visto, non può riconoscersi il diritto di sciopero – a disposizione dell’autorità giudiziaria (articolo 109); infine postula quelle leggi che impongono al magistrato di adottare, entro termini perentori, provvedimenti che riguardano la libertà e gli altri diritti fondamentali dei cittadini.

Si potrebbe obiettare che, al pari di tutti gli altri pubblici impiegati, anche i magistrati potrebbero scioperare per motivi retributivi, ma tale obiezione “non tiene conto che nello stesso rapporto di prestazione d’opera retribuita vi sono anche altre categorie, come si è visto, rispetto alle quali il divieto di sciopero non è contestato. La verità è che nell’ambito del pubblico impiego possono darsi limitazioni di certi diritti fondamentali, in vista dei fini supremi cui tendono i compiti assegnati a certe categorie di pubblici funzionari. Ne è prova la disposizione contenuta nell’articolo 98 della Costituzione, là dove si individuano alcune di queste categorie [tra cui i magistrati], rispetto alle quali può essere stabilito per legge il divieto di iscrizione a partiti politici, che pur è un diritto fondamentale sancito dalla Costituzione”. Lo sciopero dei magistrati dovrebbe essere dunque una “manifestazione non consona con la posizione costituzionale e con il prestigio della Magistratura” (così il CSM, seduta del 20 dicembre 1963), anziché un diritto che costoro hanno potuto esercitare di fatto, senza subire alcuna sanzione grazie al fatto di essere giudici “in causa propria”.

Per di più quello appena proclamato non è uno sciopero indetto da cittadini-magistrati per finalità economico-retributive. È, piuttosto, uno sciopero indetto da magistrati-cittadini, riuniti in un’associazione di categoria, di natura politica perché diretto a contestare la legge delega di riforma dell’ordinamento giudiziario approvata dalla Camera. Esso ha quindi come fine la tutela di “interessi che possono essere soddisfatti solo con atti di governo o da atti legislativi”. Così l’ha definito (e ammesso) la Corte costituzionale (sentenza n. 290/1974) nel contempo però vietandolo quando “per il suo modo di essere, oltrepassando i limiti di una legittima forma di pressione, si converta in uno strumento diretto ad impedire od ostacolare il libero esercizio di quei diritti e poteri nei quali si esprime direttamente o indirettamente la sovranità popolare”.

Ebbene, siamo di fronte ad uno sciopero di un potere dello Stato (giudiziario) contro un altro potere dello Stato (legislativo) con il quale il primo “per farsi ascoltare” usa uno strumento politico per contrastare una scelta di politica giudiziaria che per Costituzione compete solo al Parlamento, quale sede della rappresentanza politica della sovranità popolare. Se le riforme approvate sono illegittime, perché lesive dell’autonomia e indipendenza della magistratura, sarà la Corte costituzionale a stabilirlo. La scelta dei magistrati di contrastarle non secondo i rimedi previsti dal nostro ordinamento ma sul piano politico è l’ennesima riprova della tendenza dell’ordine giudiziario ad ergersi a potere che vuole condizionare, dal di dentro e dal di fuori, il legislativo e l’esecutivo, in chiara violazione del principio della separazione dei poteri che dai tempi di Locke e Montesquieu fonda le moderne democrazie costituzionali.

P.S. L’attento lettore si sarà chiesto da dove sono tratti i virgolettati riportati nell’articolo. Si tratta del discorso tenuto dal Presidente della Repubblica Saragat al Consiglio superiore della magistratura il 21 febbraio 1967 sullo sciopero dei magistrati, poi ripreso e condiviso dal Presidente Leone il 28 gennaio 1974. Ma questa è una precisazione utile solo per chi fa dipendere la validità degli argomenti dall’autorità di chi li sostiene oppure la ritiene inficiata dal tempo trascorso.