Ci è sembrata, subito, una follia la decisione della Cgil e della Uil di proclamare uno sciopero generale per il 16 dicembre contro i contenuti del ddl di bilancio ora all’esame del Senato. Quando ci siamo ripresi dallo stupore suscitato dalle anticipazioni di “radio scarpa” abbiamo atteso il comunicato per renderci conto di che cosa fosse mai successo di tanto grave, ad insaputa nostra e, in generale, degli italiani. Una volta letto il comunicato i dubbi sono aumentati: «In sostanza – era scritto – la manovra è stata considerata insoddisfacente da entrambe le Organizzazioni sindacali, in particolare sul fronte del fisco, delle pensioni, della scuola, delle politiche industriali e del contrasto alle delocalizzazioni, del contrasto alla precarietà del lavoro soprattutto dei giovani e delle donne, della non autosufficienza».
Che il ddl di bilancio non fosse un granchè lo sapevamo già e, grazie alla cortese ospitalità de Il Riformista, lo avevamo anche scritto. Del resto il testo, dopo l’approvazione da parte del Consiglio dei ministri, era stato a lungo in gestazione come ai tempi in cui i provvedimenti venivano approvati “salvo intese”. Il numero degli articoli era aumentato in maniera sospetta, a causa delle accurate mediazioni intervenute, che non sempre si incamminavano sulla strada delle auspicate misure strutturali, indicate nel Pnrr. A prova del ritorno alle solite pratiche di bilancio, la Corte dei Conti nell’audizione in commissione Bilancio del Senato – sia pure con il dovuto garbo istituzionale – aveva fatto notare lo strabismo della manovra: «Numerose sono le misure alla base dell’aumento della spesa: nel 2022 sono 172 le disposizioni del disegno di legge di bilancio che ne comportano (in termini di indebitamento) una espansione. Di queste – aveva aggiunto la magistratura contabile – le prime 10 per dimensione finanziaria assorbono oltre il 50 per cento degli incrementi; per il resto si rileva un’accentuata polverizzazione degli interventi, 64 dei quali presentano importi uguali od inferiori ai 10 milioni».
Sia pure a grandi linee, tuttavia, il ddl non si era affatto chiuso in una torre d’avorio; potremmo affermare, anzi, che aveva tenuto conto degli orientamenti e delle attitudini dei partiti di maggioranza. Eppure, nemmeno questo è bastato. Il ddl era stato assalito da migliaia di emendamenti da parte degli stessi parlamentari della maggioranza. Poi sono entrate in gioco le parti sociali, affrontando qualche pezzo della manovra di loro particolare interesse. Sulle pensioni avevano fatto buon viso a cattiva sorte su quota 102, incassando una solenne promessa ad affrontare le linee di una riforma organica entro il prossimo mese di marzo. Draghi si era addirittura spinto troppo avanti, perché sapeva bene che le proposte di riordino avanzate dai sindacati non erano per nulla sostenibili. La Corte non aveva esitato a riconoscere , con riguardo all’Ape sociale, le innovazioni significative rispetto a quelle in vigore, allo scopo di aiutare l’accesso al pensionamento di categorie oltre che strutturalmente fragili particolarmente colpite dalla crisi pandemica. L’allentamento si sarebbe realizzato soprattutto attraverso un’espansione della platea potenzialmente interessata.
Quanto agli ammortizzatori sociali si era espressa in audizione anche la Banca d’Italia segnalando che «in Italia la durata complessiva delle integrazioni salariali è già significativamente superiore a quella prevista nei principali paesi europei, dove il sostegno viene garantito per lo più in caso di shock temporanei (come nel nostro regime ordinario) e la tutela dei lavoratori nei casi di prolungata crisi aziendale è affidata ai sussidi di disoccupazione e alle politiche attive». In materia fiscale, ben 7 degli 8 miliardi stanziati erano destinati alla riduzione dell’Irpef che ormai con tutti i bonus e i pezzi di flat tax in circolazione per alcune tipologie di impiego, è diventata una imposta versata dai dipendenti e dai pensionati. Anche in questo caso però non era sbagliato tagliare le tasse a chi ne paga di più anche in una logica di progressività. I contribuenti che dichiarano guadagni annuali dai 35mila euro in su sono solo il 13,22%, cioè 5,5 milioni, meno del 10% della popolazione, ma pagano il 58,86% di tutta l’Irpef. Poi, diciamoci la verità, nessuno rimaneva a bocca asciutta; magari il taglio delle sue imposte era inferiore di quello su altri redditi. Il sindacato non dovrebbe tutelare tutti i lavoratori? O quelli che percepiscono redditi medio-alti sono dei kulaki? Ma l’impostazione che lascia sconvolti, leggendo il comunicato di Cgil e Uil è la rappresentazione del mondo del lavoro, dell’economia e della società italiana che lascia interdetti. Certo, i problemi elencati esistono.
Ma oggi, in una prospettiva coerente con la ripresa e l’esigenza del suo consolidamento, ci sono questioni che ostacolano le prospettive di crescita di cui nessuno, nel sindacato, si occupa perché estranee allo stereotipo della loro ideologia. I dati ci dicono che le dimissioni sono in numero maggiore dei licenziamenti (che dopo lo sblocco erano temuti in milioni di unità). Nota, infatti, il Lavoro che: «La crescita dei rapporti cessati riguarda tutte le cause di cessazione: tra queste l’aumento maggiormente significativo – scrive il Lavoro – è costituito dalle Dimissioni (pari a 85,2%) mentre una crescita più contenuta si registra nei Pensionamenti (+2,0%) nelle Altre cause (+12%) e nei licenziamenti (+17,7%, pari a +17 mila)». Ma il bello viene con “i posti vacanti”. Nell’Italia dei disoccupati, dei poveri impoveriti, dei precari, dei “diseguali”, degli scoraggiati, degli stipendi da fame, del lavoro nero, vi sono dei posti di lavoro che aspettano, sovente a lungo, che arrivi qualcuno ad occuparli. E sono definiti pertanto “vacanti”. Che cosa si intende per posti vacanti? Secondo l’lstat definizione prende a riferimento le ricerche di personale che nell’ultimo giorno del trimestre considerato, sono iniziate e non ancora concluse.
In altre parole, i posti di lavoro retribuiti (nuovi o già esistenti, purché liberi o in procinto di liberarsi) per i quali il datore di lavoro cerca attivamente al di fuori dell’impresa un candidato adatto ed è disposto a fare sforzi supplementari per trovarlo. Attenzione: I posti vacanti sono un fenomeno fisiologico del mercato del lavoro. Entro certi limiti, tuttavia, che possono essere cifrati intorno all’1%. Ma, come adesso, l’1,8% è tutta un’altra musica, soprattutto dopo una crisi produttiva come quella imposta dalle restrizioni dello scorso anno e un blocco dei licenziamenti durato – con varie proroghe – circa 500 giorni. Un altro aspetto importante riguarda l’arco temporale estremamente breve in cui si verifica questa accelerazione. Come fa notare l’Istat nel secondo trimestre 2021, il tasso di posti vacanti destagionalizzato – per il totale delle imprese con dipendenti – si attesta all’1,3% nel complesso delle attività economiche, all’ 1,4% nell’industria e all’ 1,6% nei servizi.
Il confronto con il trimestre precedente mostra un incremento più marcato nei servizi (+0,5 punti percentuali) e più debole nell’industria (+0,2 punti percentuali). Ciò coesiste con un numero importante di disoccupati (soprattutto giovani e donne) e di neet. In breve sono presenti significative domande e offerte di lavoro, che viaggiano su binari che non si incontrano. Eppure, nel ddl di bilancio le politiche attive restano confinate – nel silenzio dei sindacati scioperanti – nel secondo pilastro del reddito di cittadinanza che ha già dimostrato la sua inconsistenza. Ma questi problemi non esistono. Perché sforzarsi a interpretare la realtà quando è così appagante l’ideologia?