Sciopero generale arma spuntata, inutile scendere in piazza contro il caro vita quando l’inflazione arriva da Cina e Usa

L’Italia si è fermata nella giornata di ieri per lo sciopero generale indetto da Cgil e Uil contro le politiche economiche del Governo, il caro vita e il conseguente calo del potere di acquisto. Al di là del balletto delle cifre che durerà come sempre qualche giorno, da un lato i sindacati che parlano di successo e dall’altro esponenti dell’Esecutivo che minimizzano, il dato è che il fronte dei lavoratori italiani è diviso rispetto all’attuale situazione economica e che sceglie modi diversi per reclamare i propri diritti.

Inflazione di scioperi

Un terzo dato è che in Italia negli ultimi due anni si registra una inflazione di scioperi. Basti pensare, ad esempio, che una indagine dell’Osservatorio dei Conti pubblici dell’Università Cattolica dello scorso ottobre, parla di una media di almeno tre scioperi al giorno. E’ chiaro: uno sciopero di settore non è come uno sciopero generale. Anche questi ultimi sono diventati sempre più frequenti. Il risultato è duplice. Lo sciopero sta diventando un’arma spuntata perché percepito come una consuetudine; i cittadini lo considerano come un disagio evitabile a causa di chi non “vuole lavorare”. Il diritto di sciopero è sacrosanto in una democrazia e nel gioco delle parti, cioè della contrapposizione tra capitale e lavoro, esso è l’arma fondamentale per i “più deboli”, i salariati. Continuare ad evocarlo, almeno tre volte al giorno come dicono le statistiche, sortisce però un effetto anestetizzante e vanifica le battaglie di chi scende in piazza.

Contro i mulini a vento

Ciò che colpisce di questo sciopero generale sono le ragioni: contro il tentativo di svolta autoritaria, salari e pensioni bassi, poche risorse alla sanità e assenza di un piano industriale. Il tentativo di svolta autoritaria in un Paese in cui la magistratura è indipendente, in cui si può liberamente criticare chi è al Governo e si può scioperare con facilità, sembra davvero una esagerazione. La questione dei salari e delle pensioni invece è serissima. Dovremmo chiedere ai sindacati però una cosa: in questi ultimi trent’anni dove eravate? Che gli stipendi italiani siano fermi al palo, lo conferma l’Ocse che in una analisi spiega come negli ultimi anni solo le retribuzioni italiane sono calate mentre quelle di tutti gli altri Paesi occidentali sono cresciute.

Quali azioni ha messo in campo la rappresentanza dei lavoratori per affrontare questo problema in passato? Nessuna, se non il “solito sciopero”. Una interpretazione sbagliata della concertazione ha fatto in modo che gli stipendi fossero sempre più tenuti da parte e si pensasse a garantire l’occupazione. E ancora: la perdita di potere di acquisto non si può certo imputare ad un Governo nazionale. Non comprendere che la dinamica dei prezzi è regolata da meccanismi globali; che le politiche monetarie sono in capo alla Banca Centrale Europea e che la gestione dell’euro è indipendente dagli Esecutivi nazionali, vuol dire scioperare contro i mulini a vento. Se l’inflazione è aumentata è perché la filiera distributiva globale si è inceppata, i prezzi delle materie prime sono alle stelle per via delle conseguenze post pandemia e la crisi dei consumi cinesi crea spinte inflazionistiche enormi. Senza contare che la guerra dei dazi tra Stati Uniti, Europa e Cina è un ulteriore motore di crescita dei costi. Si sciopera in Italia per colpire Pechino? Evidentemente non è cosi.

Piattaforma

Sarebbe importante, allora, che il sindacato decidesse una volta per tutte di mettere in campo una seria piattaforma riformista. Un patto da stipulare con le aziende e lo Stato affinché al centro venga messo il bene comune del Paese. E il bene comune si sintetizza in una sola parola: produttività. I rappresentanti dei lavoratori dovrebbero garantire un impegno in flessibilità, aggiornamento professionale, adattamento delle funzioni in cambio di aumento di salario per garantire la crescita del valore aggiunto. Un sindacato riformista potrebbe farlo se la sua controparte naturale, gli imprenditori, fossero attenti a non fare margini sui salari. Servirebbe un sistema maturo di relazioni industriali nel quale gli operai partecipano ai profitti in cambio di produttività e le aziende investono in innovazione.

In realtà l’Italia non dovrebbe inventarsi nulla. Potrebbe copiare dalla Germania in cui il modello di relazioni industriali ha garantito quindici anni di crescita ininterrotta sia degli utili delle aziende che dei salari, anche se adesso l’industria tedesca è in crisi ma per altri motivi (costi energetici, export al palo, politica debole). In un Paese normale, il buon senso sarebbe da preferire alle barricate.