Alessia Rosati, una ragazza romana di 21 anni, il 23 luglio del 1994 uscì di casa in via Val di Non dicendo ai genitori che andava ad assistere agli esami di maturità di Claudia, una sua amica, ma non fece più ritorno. In uno dei tanti cold case italiani arriva in soccorso la grafologa giudiziaria del tribunale di Roma Monica Manzini. L’inchiesta è stata riaperta nel 2019 dalla pm Alessia Miele della Procura di Roma, dopo che erano emersi collegamenti con il caso di Emanuela Orlandi in seguito ad alcune dichiarazione del superteste indagato, Marco Accetti.

Oggi emergono due novità. La prima è che la stessa amica durante le prime indagini fu accusata di dichiarazioni mendaci rese a pubblico ufficiale, in quanto non riferì di aver accompagnato a casa Alessia quella stessa mattina, prima di sparire. Alcuni vicini di casa videro infatti le ragazze insieme, smentendo la prima testimonianza di Claudia. La seconda novità è emersa dopo un’approfondita consulenza grafologica sulla lettera d’addio della giovane studentessa di Lettere, eseguita dalla dottoressa Manzini.

“Il taglio delle ‘t’ così lungo e netto? Indice di aggressività e fragilità. Il margine sinistro crescente? Bisogno di evasione. E la tendenza a scrivere fino al margine destro a voler ‘sconfinare’ con la penna oltre il foglio? Desiderio di indipendenza, di bruciare le tappe. Ma l’assenza di segni di incertezza o tremori porta a escludere uno stato di costrizione.

L’analisi grafologica di Manzini è stata trasposta nel romanzo ‘Le ali della verità’ pubblicato di recente. E parte dall’esame dell’unico vero elemento a forte valenza probatoria in possesso degli inquirenti impegnati nel caso Rosati: la lettera che Alessia inviò all’amica Claudia. Missiva verosimilmente imbucata nell’imminenza della scomparsa, infatti arrivò a Claudia il 26 luglio, tre giorni dopo la sparizione di Alessia. La ragazza annunciava la sua decisione di partire improvvisamente, con “un ragazzo che è stato molto importante per me”, per andarsene “x l’Europa” senza sapere “quando tornerò”.

I genitori Antonio e Anna, all’epoca lui vigile urbano e lei dipendente della Regione, hanno sempre pensato che si fosse trattato di una sorta di ultimo messaggio scritto sotto minaccia perché il testo conteneva un riferimento temporale errato che solo loro avrebbero compreso. Ovvero Alessia collocava nel lunedì successivo la partenza per il paese in Umbria dove sarebbe dovuta andare in villeggiatura con la famiglia, quando il giorno esatto era invece il sabato, il giorno della sua scomparsa. L’ipotesi verosimile quindi che qualcuno l’avesse obbligata a “depistare”, adesso vacilla.

Manzini, che si è occupata tra le altre cose dello caso dello scontrino del sindaco Marino, sostiene che non esiste “nessun elemento oggettivo che avvalori l’allontanamento volontario oppure il fatto che la lettera sia stata scritta sotto minaccia”. A mancare nella grafia sono i “segni di terrore/paura” come “tremori, stentatezza o angolosità improvvise”. Emergono “con chiarezza” tuttavia alcuni aspetti di “fragilità emotiva”.

“Ansia” manifestata dagli accavallamenti delle lettere e il “bisogno di evasione/fuga/indipendenza”, espresso, spiega la grafologa, “dal margine sinistro decrescente e dalla precipitazione del tracciato verso destra”. Non trascurabile anche una “agitazione/aggressività nel taglio “forte e reciso” delle lettere ‘t’.

La conclusione di Manzini è quindi che “Alessia Rosati nello scrivere quel testo non era terrorizzata, e questo porta a escludere che si trovasse sotto minaccia, ma al tempo stesso manifestava delle evidenti fragilità emotive e psicologiche, come se stesse per lanciarsi in una impresa al di sopra delle proprie possibilità, – e conclude – “l’allontanamento volontario va scartato, nonostante la ragazza esprimesse un desiderio di autonomia. Allo stesso tempo bisogna anche escludere che le ultime parole scritte da Alessia contenessero un messaggio in codice ai genitori, perché sarebbe stato più logico inviare la lettera direttamente a loro. Quindi, si può anche ragionevolmente ipotizzare un nuovo scenario: la ragazza potrebbe aver voluto far credere alle persone da cui stava scappando che andava fuori dall’Italia, per mettersi al riparo da pericoli”.

Il fil rouge tra il cold case di Alessia Rosati con quelli di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori (scomparse però 11 anni prima, nel 1983) è rappresentato da Marco Accetti, oggi 67enne. Romano, fotografo, con precedenti penali, che nel 2013 si autoaccusò del sequestro delle due quindicenni. È stato lui, nel 2015, a parlare per primo del giallo Rosati, riferendo di aver conosciuto Alessia, di averla ospitata a dormire a casa sua e di sapere con certezza che fu portata via da ambienti dei servizi segreti nell’ambito delle tensioni esplose nel Sisde nel 1994, all’indomani dello scandalo dei fondi neri.

Accetti sette anni fa riconsegnò il flauto ai familiari di Emanuela (che riconobbero lo strumento), e la sua voce venne accertata come corrispondente a quella di almeno un paio di telefonisti del 1983, tanto che sia lui sia gli altri indagati (Sabrina Minardi, don Pietro Vergari e tre ex banda della Magliana) vennero prosciolti dalla Procura al momento dell’archiviazione.

Ora la posizione di Accetti è mutata in relazione a un altro cold case tornato d’attualità: il delitto della 17enne Katy Skerl avvenuto a Grottaferrata nel gennaio 1984. Accetti aveva dichiarato ai giudici che la bara della ragazza era stata rubata, portata via dal cimitero Verano, e nel luglio 2022 tale circostanza è stata effettivamente riscontrata. Dietro la lapide, non c’era nulla. Dopo l’indagine grafologica anche il giallo Rosati torna in discussione. Ora la palla passa alla Procura.

Riccardo Annibali

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