A casa Abbas, a Novellara, ci fu una riunione di famiglia il pomeriggio del 30 aprile in cui si parlò di come far sparire il cadavere di Saman, smembrandolo. E’ quanto emerge dalle dichiarazioni, durante l’incidente probatorio, del fratellino della ragazza, 18 anni, scomparsa quella sera e di cui non si hanno più notizie. L’ipotesi più accredita è che sia stata uccisa dai familiari che non accettavano il suo comportamento, iniziato con il rifiuto di un matrimonio combinato in Pakistan.

All’incontro erano presenti anche lo zio Danish Hasnain, considerato l’esecutore materiale del delitto, e un altro parente. Un partecipante, ha spiegato il fratello, “ha detto: io faccio piccoli pezzi e se volete porto anch’io a Guastalla, buttiamo là, perché così non va bene“. Il cadavere di Saman, dopo due mesi di ricerche tra i campi e le serre del Reggiano, non è mai stato trovato, ma secondo i carabinieri e la Procura di Reggio Emilia non ci sono dubbi sul fatto che sia stata uccisa. Decisiva in questo senso la testimonianza del fratello della giovane pakistana che ha accusato lo zio Danish, attualmente latitante insieme ad altri tre indagati: un altro cugino, e i due genitori della ragazza, tornati in Pakistan il primo maggio.

Il 21 maggio scorso è stato invece fermato in Francia un secondo cugino, Ikram Ijaz, attualmente in carcere. Il suo ricorso al tribunale del Riesame di Bologna è stato respinto e le motivazioni, appena depositate, sono una ulteriore conferma al quadro accusatorio. Secondo il collegio, presidente relatore Andrea Santucci, e’ probabile che i due cugini abbiano partecipato con lo zio all’esecuzione materiale del delitto. Nonostante quanto dichiarato da Ijaz, ci sono prove sul fatto che abbia anche lui preso parte alla fase preparatoria, lo scavo della fossa il 29 aprile. E poi la notte del 30 andò con l’altro cugino, Nomanhulaq Nomanhulaq, a casa degli Abbas, partecipando a una sorta di pianto collettivo, ben consci della sorte della giovane. Inoltre, argomentano i giudici, contro Ijaz c’e’ anche un altro elemento “di fortissima valenza indiziaria” e cioe’ “la subitanea fuga all’estero”, del 6 maggio.

Un delitto il cui movente, per il tribunale, affonda “in una temibile sinergia tra i precetti religiosi e i dettami della tradizione locali (che arrivano a vincolare i membri del clan ad una rozza, cieca e assolutamente acritica osservanza pure della direttiva del femminicidio)”. Fattore, insieme ad altri, “pacificamente emergente dall’obiettiva analisi della complessiva condotta, che, annullando ogni positiva inferenza che si volesse trarre da un passato specchiato e lecito, dalla dedizione a un lavoro onesto o dalla giovane età”, fanno dell’autore o partecipe di un simile fatto delittuoso “persona di pericolosità estrema, alla fine capace di tutto”. Senza contare che poi, nelle sue dichiarazioni, in cui ha detto di non c’entrare nulla con la sparizione, Ikram Ijaz, non ha mai mostrato “il benchè minimo senso di commozione” per la terribile sorte della sua giovane parente.

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