Una guerra esterna e una interna, una sfida politica e una militare. È questa la partita che gioca il governo israeliano, e in particolare il suo primo ministro Benjamin Netanyahu. Quella esterna è nota: è la guerra contro Hamas dopo l’attacco del 7 ottobre. Diversa e altrettanto densa di significati e complessità è invece la sfida politica, che vale sia sul fronte interno che su quello internazionale.
Dal punto di vista domestico, l’attesa per l’annunciata offensiva via terra contro Gaza si è trasformata inevitabilmente anche in un tema che ha smosso la politica. In questi giorni i media israeliani hanno dato risalto alle indiscrezioni sulla tensione che si respira all’interno del governo di emergenza. Qualcuno suggerisce che la sfida sia soprattutto tra Netanyahu e il ministro della Difesa, Yoav Gallant. Altri media, invece, hanno indagato sulle possibili dimissioni di alcuni membri del governo per distanziarsi da un Netanyahu che appare non interessato ad assumersi la piena responsabilità del disastro del 7 ottobre.
Il ruolo degli Stati Uniti
Le dichiarazioni del capo di stato maggiore dell’esercito, Herzi Halevi, secondo il quale le forze armate sono pronte all’invasione ma hanno atteso una decisione politica sembra volere essere un messaggio sulla sinergia tra forze armate e governo, ma anche un segnale di come la mancata invasione sia frutta di una (in)decisione presa dall’alto. Su cosa abbia spinto Netanyahu a non prendere subito l’iniziativa, gli osservatori si sono interrogati più volte, trovando una risposta soprattutto nella diplomazia degli Stati Uniti.
Joe Biden ha esplicitato che la risposta israeliana non avrebbe dovuto trasformarsi in una guerra su vasta scala capace di investire altri fronti, in particolare il Libano, senza garanzie per i civili palestinesi e per gli ostaggi e senza una strategia sul futuro della Striscia di Gaza. A conferma dei timori della Casa Bianca, il Pentagono ha deciso di inviare alcuni alti ufficiali in Israele per confrontarsi con le controparti dello Stato ebraico. Tra questi anche il generale James Glynn, comandante dei Marines che in carriera ha partecipato alla battaglia di Falluja, e, sempre in Iraq, ha combattuto le forze dello Stato islamico anche a Mosul. Per i media Usa, l’invio di una persona come Glynn, esperto antiguerriglia e per le battaglie in contesti urbani, rientrerebbe in quella politica che da una parte vuole supportare lo sforzo militare di Netanyahu – come dimostrato anche dall’invio di armi e di navi nel Mediterraneo orientale e Mar Rosso – e che dall’altra parte vuole impedire a Israele di commettere errori che possono inficiare i piani dello Stato ebraico e degli Stati Uniti.
La diplomazia che si muove
Nel frattempo, a muoversi sono anche altri leader, così come la diplomazia israeliana. Ieri il presidente francese Emmanuel Macron è volato a Tel Aviv per esprimere il sostegno di Parigi e ribadire il suo diritto di difesa. Vanno evidenziati però anche altri due altri elementi del viaggio del capo dell’Eliseo. Il primo è l’avere voluto incontrare a Ramallah il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, al quale ha detto che l’attacco di Hamas è stata una catastrofe anche per i civili palestinesi coinvolti nella guerra. Il secondo è stato invece il progetto di modificare gli obiettivi della coalizione internazionale anti Isis per combattere Hamas. L’ipotesi apre diversi punti interrogativi, ma è il segnale di come Macron voglia inserirsi in modo peculiare nella questione mediorientale.
Particolare anche la presa di posizione del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che in un messaggio alle Nazioni Unite ha detto che a Gaza sono in corso “massacri che hanno come obiettivi centri abitati, luoghi di preghiera, ospedali e scuole e che raggiungono il livello di genocidio”. Le durissime parole del Sultano si inseriscono in una partita più ampia. È chiaro l’interesse a ergersi quale leader del mondo islamico attraverso la questione palestinese, ma va anche detto che secondo il portale Middle East Eye il governo di Ankara avrebbe allontanato i leader di Hamas in Turchia, forse per non mostrare affinità con l’organizzazione.
Lo scontro tra Guterres e Israele
La giornata di ieri è stata caratterizzata inoltre dallo scontro tra il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, e i rappresentanti del governo israeliano. Il primo, che nei giorni scorsi era stato al valico di Rafah, ha condannato gli attacchi di Hamas sottolineando però che questi “non sono arrivati dal nulla” e che “il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione”. A queste parole ha risposto l’ambasciatore israeliano all’Onu, Gilad Erdan, che ha chiesto a Guterres di dimettersi dalla carica di segretario generale. E altrettanto duro è stato l’intervento del ministro degli Esteri Eli Cohen, ieri a New York, e che sul social X ha scritto che “dopo il 7 ottobre, non c’è spazio per un approccio equilibrato. Hamas va cancellato dal mondo”.
Parole eloquenti che segnano un nuovo momento di frizione tra il Palazzo di Vetro e Israele, i cui rapporti, nel corso degli anni, si sono spesso rivelati molto tesi. Sempre in ambito Onu vanno poi sottolineate le dichiarazioni del segretario di Stato americano Antony Blinken, che al Consiglio di sicurezza ha affermato che i civili palestinesi “devono essere protetti”. “Ciò significa che Hamas deve smettere di usarli come scudi umani e Israele deve prendere precauzioni. Ciò significa che cibo, acqua e medicine devono poter arrivare a Gaza e alle persone che ne hanno bisogno. I civili devono essere in grado di uscire dal pericolo”, ha detto Blinken, facendo comprendere che il lavoro di Washington riguarda anche una possibile tregua umanitaria anche in virtù della liberazione degli ostaggi. Nel frattempo, sul fronte di guerra, le Idf si predispongono per l’assalto via terra, ieri nuovamente confermato da Netanyahu, e a bombardare Gaza. Le Tsahal hanno sventato un tentativo di Hamas di infiltrarsi via mare, mentre sono ripresi i lanci di razzi contro le città israeliane.