Un ritratto, a 100 anni dal martirio
Scout e popolare: Don Minzoni, martire del fascismo
Don Zuen, com’era chiamato confidenzialmente dai suoi parrocchiani, fu fino in fondo e per tutta la sua vita, senza futili distinguo, un prete e un cittadino. Un uomo, dunque, che nel suo agire univa fede e politica con l’ardore del combattente

Non dobbiamo trascurare la tendenza a fare delle ricorrenze e delle commemorazioni un rito di purificazione della memoria, anche in modo poco rispettoso dei fatti e della storia. Il Centenario della morte di don Minzoni si presta a questa facile torsione, anche perché l’avvio del processo di beatificazione induce le autorità ecclesiastiche a mantenere un approccio asciutto e rigoroso, ma insieme fatalmente limitato alla valorizzazione del solo profilo religioso. Invece “don Zuen”, com’era chiamato confidenzialmente dai suoi parrocchiani, fu fino in fondo e per tutta la sua vita, senza futili distinguo, un prete e un cittadino. Un uomo, dunque, che nel suo agire univa fede e politica con l’ardore del combattente; non in senso astratto e metaforico, ma come esercizio di volontà e di passione, per il bene della comunità, specie in favore dei più bisognosi; combattente sul serio, in effetti, perché scelse addirittura di partire volontario per la guerra entrando nel 225° Reggimento Fanteria della brigata Veneto.
Non è un elemento secondario. Don Minzoni partecipava fin da giovane al moto che caratterizzava la democrazia cristiana – per lui “santissima” – immaginata e proposta da Romolo Murri all’alba del Novecento. Un movimento che aspirava a farsi partito, cercando anzitempo di superare anzitempo il vincolo del Non expedit. Quella fiaccola durò poco ma non si spense, anche a dispetto della scomunica che si abbatté su Murri per l’accusa di modernismo e le scelte politiche più ostiche, culminanti nel 1909 con l’elezione a deputato nelle fila del Partito radicale. Infatti, una ricca stagione di entusiasmi e frustrazioni lasciò depositare nella coscienza dei più giovani l’idea che un secondo Risorgimento fosse necessario per recuperare il distacco dei cattolici dallo Stato post unitario, ovvero dalla patria come orizzonte di valori civili condivisi. In realtà, fu l’adesione all’appello della patria ciò che definì il gesto dei democratici cristiani, tutti interventisti malgrado la prudenza della Chiesa (salvo in verità Guido Miglioli, l’animatore delle Leghe bianche nelle cascine della Bassa cremonese). E nell’elenco dei cattolici patrioti troviamo appunto la figura del giovane sacerdote di Argenta, capace di vivere questa esperienza con lo spirito, possiamo dire, del “dulce pro patria mori”. Era questo il suo pensiero.
Tornò insignito della medaglia d’argento al valor militare e i suoi parrocchiani gli si strinsero attorno anche più di quanto avvenne prima, nel 1915, quando in base all’istituto del giuspatronato, lo elessero alla guida della parrocchia, divenendo canonicamente Arciprete della Collegiata di San Nicolò. Era il “loro” parroco, coraggioso soldato e generoso pastore, pronto a dichiarare guerra all’ingiustizia e alle prevaricazioni. “Carattere squisitamente romagnolo, – scrisse nel 1944 Alberto Canaletti Gaudenti, il primo ad aver pubblicato, quasi in tempo reale, una storia di Sturzo e dei popolari – [don Minzoni] non conobbe in tutta la sua esistenza un solo attimo di viltà”. Qui perciò vediamo all’opera, con gli occhiali dell’indagine storica, un uomo che sentiva principalmente il dovere di “strappare” la sua gente alla pedagogia dell’ateismo socialista, tanto da farsi lui stesso promotore della locale sezione del Partito popolare, sottoscrivendo anche due abbonamenti al “Popolo”, uno per sé e uno per il Circolo cattolico (un’altra sua opera, questa di tipo più strettamente ecclesiale). Diede vita a iniziative teatrali, organizzò l’oratorio, mise in piedi il gruppo degli scout: non poteva non dispiacere per il suo attivismo, tutto legato alla emancipazione di un popolo di braccianti ed operai, specie in un momento in cui iniziava a montare la reazione dei “padroni della terra” contro le crescenti rivendicazioni dei contadini.
Che fosse nel mirino dell’eversione fascista, ormai piegata al servizio degli agrari, non sfuggiva a don Minzoni. A un suo amico parroco scriveva poco prima di cadere vittima dell’aggressione di due sicari di Cento istigati da Balbo – secondo la ricostruzione di Donati sul Popolo – il perché avvertiva la necessità di vincere ogni residua prudenza, ammesso che ne avesse avuta molta fino a quel momento: “Quando un partito (fascista), quando uomini di grande o in piccolo stile denigrano, violentano, perseguitano una idea, un programma, un’istituzione quale quella del Partito Popolare e dei Circoli Cattolici, per me non vi è che una sola soluzione: passare il Rubicone e quello che succederà sarà sempre meglio che la vita stupida e servile che ci si vuole imporre”. D’altronde il Rubicone era stato attraversato collettivamente: nel congresso di Torino, pochi mesi prima, i Popolari erano passati all’opposizione e Mussolini, per questo, aveva dichiarato che Sturzo era a quel punto il vero nemico. Ne chiese la testa, in fondo come contropartita per aprire il dialogo con il Vaticano in vista di quello che i Patti Lateranensi del ‘29 sanciranno. E non bastò la rimozione da segretario, si volle anche l’allontanamento fisico dalla politica italiana, con l’esilio iniziato nell’ottobre del 1924 (come fu anche per Donati e Ferrari).
L’assassinio di don Minzoni rappresentò il segnale della sfida. Avanzava il Regime, con le leggi liberticide e l’imperio del Duce, soffocando le forze sociali e politiche indisposte a genuflettersi. Tuttavia il sacrificio di sangue che si consumò ad Argenta, nella sera del 23 agosto del 1923, fu anche una scintilla di ribellione e di speranza per il mondo antifascista. Fu il richiamo alle ragioni della libertà, quelle ragioni che nutrite da spirito autenticamente cristiano affiorarono alla rinascita della democrazia, dopo vent’anni di dittatura. La testimonianza eroica, usque ad sanguinem, del prete di Argenta non fu dimenticata.
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