Il libro del generale Giuseppe Governale
Scrivere di mafia come faceva Falcone
Ha ancora un senso scrivere di mafia nel Terzo millennio? Oppure tutto è stato detto, tutto è stato scritto e alla fine non dobbiamo far altro che sfogliare il libro che meglio si attaglia alle nostre convinzioni, che meglio suggestiona la nostra immaginazione o anche solo accarezza la nostra sensibilità. Tanto lo si è capito da tempo che molti ormai scrivono – e con una certa furbizia – con lo sguardo rivolto al proprio pubblico, alla propria rete di aficionados, a un circuito di estimatori o anche solo a un più modesto stuolo di seguaci. Come per un romanziere o un giallista di professione, così una certa letteratura di mafia insegue i propri lettori, li coccola e insieme perimetra il proprio mercato; quasi nessuno vuole più spiegare o raccontare su cosa siano state o diventate le mafie; tanti pretendono solo di consolidare una posizione, di conservare una rendita. Troppe volte è diventata una questione di soldi e di potere. Troppe volte, ma non sempre.
Quando questo accade, quando chi scrive cede il passo al semplice desiderio di raccontare un’esperienza, di ricapitolare brandelli di vita vissuta, di ricomporre un pezzo di sangue e dolore staccatosi dalle proprie membra, il risultato è di per sé un miracolo che merita rispetto. Giuseppe Governale non è un professionista della scrittura, è un artigiano della narrazione come lo sono tutti coloro i quali non vivono di letteratura, eppur si nutrono, tra gli affanni del proprio lavoro, del rumore di fondo della vita, che hanno orecchie e occhi sensibili a quella solitaria litania che per essere percepita è necessario si colgano sussurri, semitoni, colorazioni tenui. Le storie di mafia sono state narrate spesso con enfasi, con sanguinolento compiacimento. Si vuole stordire il lettore, stupirlo, talvolta intimorirlo per poi compiacersi del proprio ruolo, della propria “missione”. Qua e là si mescolano verità, dicerie, supposizioni, bugie ben camuffate sotto la coltre dalla mera ripetizione, sfruttando l’inerzia e la pigrizia di chi non vuole approfondire, di chi si accontenta.
Da questo punto di vista il libro del generale Governale (comandante del Ros dei Carabinieri e direttore della Dia solo per citare gli impieghi più recenti) già nel titolo demistifica, circoscrive, chiarisce: Sapevamo già tutto (Solferino, 2021). Non c’è alcun arcano da svelare, né alcuna nebbia da diradare, né veli da squarciare. Era ed è tutto evidente, conosciuto, collettivamente e individualmente risaputo. Mafia e mafiosità vanno a braccetto nell’impari sfida per comprendere se l’una preceda l’altra o se l’altra sia la genitrice della prima; un gioco di specchi in cui, prima ancora che intimidazione, la mafia è condivisione di un modello di società, di uno stile di vita, di una percezione dello Stato e degli altri.
Giovanni Falcone narrò anni or sono la sua visione della mafia in un libro memorabile che aveva un titolo parimenti profetico, mite, pacato: Cose di cosa nostra (1991). Non una storia e enciclopedica di cosa nostra o della mafia, ma la pacata enunciazione delle (poche) cose che persino un gigante come Falcone riteneva di aver capito di quel mondo oscuro e sanguinario. Ecco, dopo 30 anni, Giuseppe Governale riprende il filo di quel racconto e lo fa, forse, senza neppure accorgersene; perché procede in modo naturale come accade a chi ha nuotato nel medesimo mare di Mondello, ha conosciuto le stesse strade di Palermo, ha respirato con la stessa aria di Sicilia, ha visto cadere gli stessi amici. Giovanni Falcone aveva chiarito con esattezza il proprio pensiero, la propria intelligenza dell’inscindibile legame che Giuseppe Governale riassume nell’apparente endiadi di “mafia e mafiosità”.
Aveva scritto nel 1991: «Se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia» ammoniva il giudice ucciso, con una lucidità che ancor oggi stordisce. Trent’anni dopo il generale Governale raccoglie nel suo libro quella traccia, la insegue come gli impongono le stimmate dell’esperto investigatore e offre senza alcuna enfasi un suo bilancio. Racconta alcune altre “Cose di cosa nostra” finalmente, messe lì con ordine e precisione, senza voler narrare null’altro che non sia ciò che si è visto, ciò che si sa, come in un diario di guerra.
© Riproduzione riservata