Non sono dell’idea che la nostra sia la Costituzione più bella del mondo. Mi pare un’affermazione smodata. Comunque c’è. E finché, seguendo le regole da essa stessa statuite, dopo 72 anni, non si riesce a cambiarla almeno nelle sue parti più anacronistiche e perenti dovrebbe rimanere per tutti i cittadini, a partire ovviamente dall’alto, istituzioni in prima linea, quasi come un patto matrimoniale: da rispettare nella buona e nella cattiva sorte. Non a intermittenza, con i noti opportunismi politici, giudiziari e mediatici di chi la esalta o la abbassa a seconda del proprio interesse personale o di fazione.  Ha ragione, perciò, Sabino Cassese a ricordare che nella scuola, asset strategico per il paese, si dovrebbe entrare solo per concorso (dal Corriere della Sera, 2 ottobre, “La scuola e i concorsi da fare”). Lo dispone l’articolo 97, comma 3 della Costituzione.

Il problema non è, dunque, mettere in discussione questa disposizione generale. E non solo perché, in questi mesi, abbiamo visto violati e compressi, nella complicità e nell’incredibile appeasement di mass media e intellettuali, principi e prerogative costituzionali ben più sostanziali e dirimenti di questa. Ma proprio per la ragione opposta: perché servirebbe applicarla con maggiore efficienza e soprattutto con maggiore efficacia non solo nella scuola ma in tutti i campi della PA (ad esempio, siamo sicuri che i vincitori dell’ultimo concorso in magistratura noti per avere usato, nelle prove scritte, una lingua che fa a pugni con quella italiana siano poi capaci di giudicare bene?).
La necessità dei concorsi rivendicata dal prof. Cassese, tuttavia, cozza con almeno tre grossi elefanti nella stanza, che nessuno, purtroppo, ha voluto vedere per cercare di farli uscire.

Il primo elefante è rappresentato, senza dubbio, dall’inerzia della storia. Da che esiste la Costituzione, infatti, da noi, si sono inventati tutti i modi, da un lato, per chiamare concorsi ciò che sarebbe stato più corretto chiamare «concorsi (molto) riservati» (18 volte negli ultimi 40 anni!) e, dall’altro lato, per procedere addirittura numerose volte ad immissioni in ruolo ope legis per solo servizio prestato. Ambedue i casi hanno sempre goduto di ampie giustificazioni ora politico-parlamentari (cioè di leggi ex ante o addirittura ex post), ora di giustizia amministrativa (cioè di sentenze dei Tar e del Consiglio di Stato).  Si è istituito, in questo modo, un doppio legame che nessun richiamo all’art. 97 della Costituzione, è finora riuscita a scalfire. In questo contesto, la reiterata promessa che si sussegue dal 1948 di concorsi statali scanditi a intervalli regolari (biennali o triennali) si è sempre rivelata da marinaio. I concorsi regolari degli ultimi 42 anni per la scuola secondaria di II grado, ad esempio, sono stati svolti ogni 7 anni. Sarebbe stato così scandaloso, in tempi di Covid, di orari scolastici per gli studenti mitragliati da supplenze e di minacciate chiusure dei confini provinciali e regionali, rimandarli almeno al prossimo anno?

Il secondo elefante nella stanza riguarda invece l’affidabilità dei concorsi non parliamo di quelli riservati (riservati non a caso) ma soprattutto di quelli ordinari. I concorsi infatti, non dovrebbero avere una funzione giuridica formale, credenzialista ma, appunto, sostanziale. Non tanto esserci, ma essere impostati in modo tale da selezionare il meglio disponibile per la funzione che si bandisce. Invece la procedure concorsuali che si sono svolte da 72 anni, se si sono preoccupate di evitare ricorsi amministrativi, di obbedire (recentemente) a ingiunzioni Ue che impongono l’assunzione a tempo indeterminato dei supplenti dopo tre anni di precariato, di assicurare le immissioni in ruolo in avvio dei nuovi anni (quindi fretta, fretta) per fingere di evitare la storica patologia tutta italiana del precariato, di avere anche l’accordo con i sindacati, sono state e sono tuttora del tutto indifferenti, salvo che nella forma della predicazione moralistica e dell’artificio amministrativo (saggi brevi al posto di quiz, o viceversa), all’obiettivo di selezionare docenti realmente in possesso delle cinque competenze chiave stabilite già nel secolo scorso, a livello internazionale, condizione per un esercizio proficuo di questa professione, cioè: padroneggiare in profondità non solo i saperi disciplinari che si è chiamati ad insegnare, ma anche quelli neuro-psico-antropo-pedagogici che li giustificano; essere competenti nelle mediazioni didattiche operativamente indispensabili per personalizzare gli apprendimenti degli studenti; dimostrare in situazione attitudini alla relazione interpersonale pedagogica e non sociale, psicologica o antropologica con i ragazzi; partecipare in modo attivo e documentato alla crescita della comunità professionale di appartenenza; dimostrare di usare come si deve l’autoriflessione critica del proprio operato e di quello adottato nella scuola per migliorare l’uno e l’altro. Occorre avere allora il coraggio di riconoscere che tutte le politiche di reclutamento condotte fin qui, sono state per lo più strumentali al consenso elettorale e alla decisione politica volta a trasformare la scuola statale nella più grande agenzia centralizzata di collocamento per laureati sotto o disoccupati esistente al mondo.

L’ultimo elefante nella stanza consiste nel parlare da oltre settant’anni di precariato intollerabile e di conseguente emergenza concorsi per superarlo allo scopo di nascondere meglio i due veri nodi del problema: il primo istituzionale, riguardante il fallimento di una gestione centralizzata del personale; il secondo pedagogico-culturale, relativo ad una formazione iniziale del tutto sbagliata perché ancora improntata sul paradigma epistemologico del fordismo disciplinare. La formazione iniziale dei nostri docenti è più lunga che in tutti gli altri paesi del mondo e non è né a numero programmato in base ai fabbisogni né abilitante all’esercizio della professione. I nostri laureati sono perciò costretti a entrare in ruolo molto tardi nella scuola e ripetere ogni anno, il balletto infinito delle graduatorie e delle supplenze. Sia, dunque, per ringiovanire l’esercito dei nostri 900 mila docenti, sia per abilitarli all’esercizio della funzione docente in grandi e piccoli gruppi, sia per chiudere definitivamente la lunga stagione del precariato che dura da un secolo e mezzo, si rende indispensabile istituire subito lauree magistrali a numero programmato che abilitino all’insegnamento. Allo stesso tempo, si tratta di decostruire l’attuale sistema di reclutamento centralistico, affidandolo all’autonomia delle reti di scuole. Esse devono avere la possibilità di selezionare le professionalità di cui hanno bisogno, sulla base di chiare norme generali nazionali.