Dello spessore morale di “M” di Antonio Scurati e della solida rievocazione storica si è già detto moltissimo. Qui vorremmo insistere sulla alta qualità letteraria dell’opera, che in questo quarto volume scuratiano (“M – L’ora del destino”, Bompiani) forse supera quella, già notevole, dei precedenti. Perché poi, alla fine, la forza e il successo di “M” non si spiegherebbero senza questa qualità della prosa scuratiana, e sarà interessante vedere a gennaio la serie tv diretta dal grande regista Joe Wright con Luca Marinelli nella parte di Mussolini: pare impossibile fallire l’impresa partendo da un testo come questo che – questo vorremmo dire – è prettamente letterario e pertanto già pronto a essere ridotto per il cinema o appunto la tv. Perché questa è una scrittura classica, da gran romanzo ottocentesco e insieme moderna, da film di un Coppola o Scorsese.

Sarebbe dunque un peccato se il lettore di “M”, pur comprensibilmente preso dall’incalzare della vicenda, trascurasse la bellezza di questa prosa, la forza tremenda di certe immagini che ci restituiscono in questo volume un Mussolini che scende nell’inferno della sua catastrofe umana e politica, un Re Lear certo meno eroico del personaggio shakespeariano ma ugualmente vinto, malato, pazzo. Senza che tutto ciò indulga alla pena per il responsabile di un disastro storici senza paragoni. Alcune immagini abbiamo scelto per calare lo spirito shakespeariano nell’opera di Scurati.

“Un forte popolo come quello italiano non teme la verità, la esige“. L’uomo che alle ore 13.00 del 18 novembre 1940 pronuncia queste parole nella Sala Regia di Palazzo Venezia davanti alle gerarchie del partito, sebbene gli assomigli in tutto e per tutto – la mascella quadrata, il cranio calvo, la posa gladiatoria – non è Benito Mussolini da Predappio. Da quando il generale Soddu è stato costretto poche ore prima a ordinare il ripiegamento su tutta la linea del fronte in Albania, non lo è più. A parlare adesso è soltanto il sosia del fondatore del fascismo, creatore dell’Impero e dittatore d’Italia. Lo era già in buona parte prima, ma ora tutto intorno al Duce è finzione, puro teatro. Anche lui non è lui.

20 dicembre 1942, la guerra volge già al peggio: «Ah Dio, Dio! Sì, forse io impazzirò o finirò per impiccarmi! Tutto crolla, tutto è distrutto. Non si mutano venti secoli in vent’anni! Cesare è morto da venti secoli. Che Roma, che Roma… Via con questa Roma imperiale, l’Impero è distrutto. Cesare è morto, che vai sognando, Mussolini? Che vai sognando? Generali che fuggono, bandiere bianche… Soltanto venti milioni di italiani sui quali io posso contare: solo venti! La razza, la razza pura? Ho i figli di schiavi! Il romagnolo non si attende: si fa uccidere. Io ci muoio dalla vergogna! Ci muoio, Clara: tutto si infrange, si frantuma nelle mie mani… Tutto è stato inutile, e tu soffri, soffri con me… Sì, io sono veramente un fallito!».

Sembra davvero Shakespeare, un po’ Lear, un po’ Riccardo III. Uomini che hanno perduto potere e stima di sé stessi, sentendosi soprattutto ingannati, traditi dal popolo, dalla Storia. Ma Lear, nella sua incipiente follia, è più lucido del Duce che – piegato dall’ulcera che lo perseguita – alterna momenti di consapevolezza ad altri di ingiustificato ottimismo. È un Mussolini pazzo, quello che di aggira per le immense sale di Palazzo Venezia, nel periodo cruciale di una guerra ormai segnata che solo le sue allucinazioni momentanee, come quelle ancora più mostruose di Hitler, possono occultare a loro stessi. Ma la Storia rotola ineluttabilmente colpendo Benito al volto come un pugile il suo avversario che, intontito, vaga per il ring.

Ed eccolo – altra memorabile pagina di questo volume di “M” – nei momenti salienti e tragicissimi del luglio 1943, la caduta di cui il Duce nemmeno si rende conto. È il fatidico 25 luglio, mattina. Il voto del Gran Consiglio che di fatto lo esautora c’è stato qualche ora prima, la Storia è cambiata per sempre ma il Duce va a Palazzo Venezia come fosse un giorno qualunque. Il fedele cameriere Quinto Navarra ne scruta gli atteggiamenti, intuisce che Mussolini è strano, «ha il viso stanco, non si è rasato, i suoi sguardi tradiscono “una strana lentezza”. Navarra lascia la stanza. Richiude la porta adagio. Riguadagna l’anticamera, il suo posto nel mondo. Dopo pochi minuti viene richiamato di nuovo. Questa volta a voce. Si affaccia alla porta. Ma Benito Mussolini, curvo sul suo tavolo di lavoro, è immerso nella lettura. Il servitore attraversa la sala, raggiunge il tavolo e resta in piedi in attesa del comando. Il padrone però sembra non vederlo».

Dov’è la testa di Benito-Lear? «“Mi avete chiamato, Duce?”. Mussolini lo guarda stupito: “Non mi sembra”. Poi torna a leggere». Benito poi esce, va via, Navarra si reca al suo tavolo per metterlo in ordine e «vi trova un’arancia interamente sbucciata ma intatta. La buccia è stata sminuzzata in decine di minuscoli quadratini, tutti uguali, perfettamente regolari e perfettamente inutili. Sembra il lavoro di una macchina». O di un uomo uscito di senno. Quella buccia di arancia fatta a pezzettini identici da un uomo che ha dominato l’Italia per vent’anni rappresenta la metafora forse più agghiacciante e oscura dell’avvento della Fine. Se Lear muore relativamente in fretta, Benito vivrà ancora quasi due anni. Una discesa agli inferi shakespeariana. O scuratiana.