Probabilmente nemmeno lui, nemmeno il magistrato che, armato del suo potere, pretende di dire la sua al modo del colonnello in parata, vuole davvero che le sue parole, i suoi propositi di riforma, le sue istanze di governo della giustizia, rischino di imporsi in forza della capacità intimidatoria dei pericolosi strumenti di lavoro che la società gli ha messo in mano. Ma io discuto molto mal volentieri se il mio interlocutore ha una pistola, e non è che sono più tranquillo se anziché metterla sul tavolo la tiene nella fondina. Pare che la questione neppure vagamente impensierisca i magistrati che rivendicano il diritto di occupare ogni luogo del dibattito pubblico in tema di giustizia.

E visto che non li impensierisce i casi sono due: o non si rendono conto di quanto sia pericoloso che il loro intervento si imponga sulla scena di una società intimorita dal loro potere, e allora si tratta di una improbabile buona fede che sarebbe anche facile perdonare; oppure se ne rendono conto benissimo e cioè sanno perfettamente che il loro eloquio è invigorito dal potere di cui dispongono, vale a dire il potere di rinchiudere in una cella la vita di una persona: e allora quella buona fede è irriconoscibile, ed è imperdonabile la loro pretesa d’aver voce in capitolo. Vorremmo magistrati inchinati davanti al potere di cui dispongono, cioè timorosi e saggi nell’esercitare il potere immenso che gli abbiamo attribuito. Invece spesso vediamo una magistratura impettita, che ci intima di inchinarci davanti alla sua pretesa di dire e fare tutto ciò che vuole.