Il populismo giudiziario
Se il Paese dei confiscati innocenti eccita l’orgoglio di governo e giornalisti
A voler fare della Giustizia il “metro” di valutazione o, addirittura, la misura del successo della classe politica al Governo di un Paese Democratico, si rischia davvero di destinare il problema della Giustizia stessa all’intelligenza di chi giurista non è. Il recente scambio di opinioni tra il leader del Movimento Cinque Stelle, che accusa il governo di essere stato morbido nella politica della lotta alle mafie, ed il Direttore de “La Verità” che, al contrario, ha sciorinato i numeri del successo politico del Governo, è l’occasione per una breve riflessione sul tema, che non ha l’ambizione di diventare un esperimento sulla verità. Non si può certamente contestare l’impegno del Governo Meloni nella politica di lotta alla criminalità organizzata ed economica, c’è indubbiamente una nuova visione del fenomeno criminale sempre più economico e transnazionale. E ciò al di là dei risultati conseguiti in questi ultimi due anni che, sebbene politicamente capitalizzati dalla classe politica al momento al Governo del Paese, sono in effetti il risultato dell’impegno profuso dalla Magistratura e dalle Forze di Polizia nel corso degli ultimi decenni. Pensare che la cattura dello storico latitante Matteo Messina Denaro sia un merito esclusivo del Premier appena insediato, piuttosto che di altri, offre un quadro distorto della realtà.
La riflessione sulla “Giustizia”, però, non si fa con l’aritmetica, per la semplice ragione che la Giustizia non è un’azienda. Se torturi i numeri abbastanza a lungo confesseranno quello che vuoi, scriveva Gregg Easterbrok qualche decennio fa. E, a proposito di numeri: fra i paesi del Consiglio d’Europa, proprio l’Italia dal 1959 al 2020 è stata condannata dalla CEDU ben 2.427 volte, peggio di noi soltanto la Russia e la Turchia. Siamo il primo paese dell’Unione Europea ad avere riportato il maggior numero di condanne per tortura ed il primo paese con più sentenze della Corte europea non eseguite. Non proprio un record di cui potersi vantare. Ed allora, è evidente come la discussione sui meriti del Governo nella politica di lotta alla criminalità organizzata non possa essere compiuta soltanto su semplici numeri, bisogna contestualizzarli nel difficile equilibrio tra efficacia dei sistemi repressivi e garanzie per il cittadino. Quella della lotta alle mafie è, in realtà, un tema sempre attuale nel nostro Paese che, sull’altare di una emergenza opportunamente mai risolta, ha giustificato un sistema di aggressione alle libertà dell’uomo e al diritto di proprietà ben lontano dai parametri costituzionali di civiltà giuridica.
Si è legittimato un vero e proprio diritto penale del “presunto colpevole” pensato dal nuovo codice antimafia e delle misure di prevenzione patrimoniali anche per coloro che mafiosi non sono. Un vero e proprio sotto-sistema penale se non altro per il vasto catalogo di categorie giuridiche cui si rivolge, tutte più o meno replicanti specifici reati già codificati, che diventano rilevanti ai fini della prevenzione già al solo raggiungimento della soglia indiziaria. Dunque, se non c’è la prova del reato poco importa, è sufficiente l’indizio di esso, ovvero il sospetto. A volere essere precisi, si tratta di un sistema di pura repressione penale senza i limiti del giusto processo, senza un fatto da giudicare, senza garanzie per i destinatari di esso, ovvero i proposti, aggettivo di difficile collocazione giuridica che, tradizionalmente, evoca la candidatura ad un premio. Quella dei proposti è la categoria dei nuovi dannati, né colpevoli né innocenti. E qui, addirittura, vantiamo un altro record: siamo l’unico paese dell’Unione Europea con un sistema di confisca dei patrimoni del tutto sganciato dalla responsabilità penale per fatto-reato.
Il caso dei fratelli Cavallotti è emblematico di una deriva giustizialista del sistema di prevenzione: imprenditori vessati dalla mafia, così come accertato nel processo penale per associazione mafiosa, ove sono stati assolti perché il fatto non sussiste, e al tempo stesso ritenuti favoreggiatori della stessa, per ciò destinatari di un provvedimento di confisca generale dei rispettivi patrimoni personali e aziendali. Il caso Cavallotti è finito, però, sotto la lente di ingrandimento della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ove la Repubblica Italiana è adesso sotto processo. E appena qualche settimana fa, l’Avvocatura dello Stato ha fornito le sue osservazioni alle contestazioni mosse dalla prima sezione della Corte Europea. È il capovolgimento del diritto, delle garanzie del giusto processo, un ritorno al passato. Una visione, quella del Governo, figlia di una concezione autoritaria della Giustizia che trasforma le vittime in carnefici, nella quale è il proposto, ovvero il soggetto additato di essere appartenente alla mafia, a dovere giustificare la natura e la formazione del suo patrimonio. C’è, allora, una evidente forzatura del principio di presunzione di innocenza presidiato dall’art. 111 Cost, laddove il soggetto ritenuto mafioso, sebbene assolto dunque estraneo alla mafia, subisce una reazione per certi aspetti ben più violenta della condanna in sede penale. Viene spogliato del suo patrimonio, interdetto dalla possibilità di esercitare un’attività commerciale o industriale, privato del diritto di elettorato passivo ed attivo, privato della patente di guida. Una vasta gamma di “pene” che di fatto relegano il proposto ai margini della società civile e produttiva, per lo più applicate a seguito di un procedimento sommario con garanzie difensive al lumicino, e già esecutive dopo la decisione di primo grado.
Siamo chiaramente di fronte ad un sistema molto lontano dal pensiero garantista, ove la presunzione di colpevolezza si è sostituita al principio di responsabilità, il sospetto al fatto. È la nuova frontiera del diritto penale, quello del presunto colpevole. Nel caso Cavallotti, è la stessa Avvocatura dello Stato che, nelle repliche inviate alla CEDU, ammette la natura punitiva delle misure di prevenzione pur nella prospettiva di prevenire. Il principio è quello di punire per prevenire il pericolo, un vero e proprio capovolgimento dello Stato di Diritto. Il vero problema è, evidentemente, la conservazione del para-Stato che è l’Antimafia, in nome della quale tutto è consentito. Il rischio è la deriva del diritto verso il populismo giudiziario, l’ossessione di Leonardo Sciascia.
Baldassare Lauria – Direttore della Fondazione Giuseppe Gulotta
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