La cultura democratica occidentale ci ha fatto crescere nella ferma convinzione che il processo penale non è strumento e luogo della vendetta sociale contro il crimine, ma strumento e luogo dell’accertamento rigoroso del fatto, di verifica della ipotizzata responsabilità di un imputato che occorre presumere innocente. Ce lo insegnavano a scuola e nelle università, ma con ben maggiore efficacia in quei film western che rappresentavano sempre con biasimo la folla inferocita che improvvisava forche e vi appendeva colpevoli giudicati tali dal sommario furore popolare a sostegno delle vittime, o presunte tali.

Le cose, purtroppo, vanno cambiando assai rapidamente da alcuni lustri a questa parte, in particolar modo in Italia, ed è una eccellenza della quale avremmo fatto ben volentieri a meno. La forza empatica della vittima, la irresistibile potenza del dolore di chi ha subito – o afferma di aver subito- la violenza di un crimine, si fa travolgente in una comunicazione mediatica assetata di emozioni, e fra queste la più facilmente infiammabile: l’indignazione. Per logico contrasto, chi osa opporre a quello tsunami la presunzione di innocenza viene irriso già solo dalla evidente, sproporzionata debolezza della sua querula invocazione; ed anzi finisce per assumere le vesti spregevoli di chi è cinicamente indifferente al dolore della vittima, e dunque complice dell’imputato, già presunto reo.

Inutile il richiamo, prima ancora che ai sacri principi, al semplice buon senso; il quale basterebbe da solo a far comprendere come l’accertamento innanzitutto di chi sia la vittima, e poi se sia proprio l’imputato (o chi altri invece) ad averla resa vittima di un crimine, è il presupposto fondativo del processo penale. Dunque, porre vittima ed imputato sullo stesso piano processuale, cosa che una dissennata idea di trasversale segno populista ambisce ora addirittura ad affermare con modifica costituzionale, dà la misura dello scempio che in questo Paese si è giunti a fare del sacro ma sempre più irriso principio di presunzione di innocenza. Non c’è più cronaca giudiziaria che non ponga al centro del racconto la sete di giustizia della vittima, e -all’esito del giudizio- la misura della sua soddisfazione.

Che ovviamente è quasi sempre delusa, perché chi porta nel cuore il dolore per la perdita di una persona cara, o il dolore per l’ingiuria che essa ha dovuto sopportare, non può che accontentarsi di una condanna, per di più alla pena massima. È ormai quotidiana la cronaca di parti offese o loro familiari che gridano all’ingiustizia, berciando e minacciando giudici ed avvocati, non solo se si assolve, ma anche se si condannano magari solo alcuni degli imputati, e non al massimo della pena. La irresponsabilità di quella proposta di modifica costituzionale, la sua conformistica e vile corrività, e soprattutto la sua sgrammaticata sintassi populista ed illiberale, mette i brividi. Di questo vogliamo oggi parlare, con autorevolissimi contributi di pensiero, in questo numero di PQM: il nostro piccolo, accorato, allarmato contributo di idee e di riflessione perché si comprenda fino in fondo la portata letteralmente eversiva che si annida in una proposta di modifica costituzionale alimentata dalla sete inestinguibile del sentimento di “indignazione” che traina, a suon di like e di ascolti, una informazione (ed una politica) ormai fuori controllo. Buona lettura.

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Avvocato