Se la giustizia confonde la suggestione con la prova

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L’insussistenza del reato appare evidente. Le risultanze probatorie acquisite prestano il fianco a molteplici rilievi, giacché contengono esclusivamente un mero principio di prova che, però, è rimasto confinato a mera suggestione»: la motivazione con cui la Corte d’Appello di Reggio Calabria ha assolto l’ex senatore di Forza Italia Bruno Siclari dall’accusa di scambio elettorale politico-mafioso è una fotografia fedele della giustizia italiana. C’è un parlamentare portato a giudizio, scaricato dal partito e non ricandidato, quindi arrestato, processato e condannato in primo grado a cinque anni e 4 mesi per aver chiesto e ottenuto i voti della ‘Ndrangheta. Adesso si scopre che la prova di un accordo illecito è stata desunta nella sentenza del tribunale dalla mera vittoria elettorale del candidato senatore, ancorché – dicono i giudici d’appello – «la stessa è stata determinata da cause del tutto estranee a un presunto patto mafioso».

Queste parole provano che il pregiudizio e il sospetto possono insinuarsi dentro l’azione penale fino alla sentenza di primo grado, un tempo lungo anni e sufficiente a stroncare carriere, famiglie e vite, e possono entrare a gamba tesa sull’autonomia politica di una comunità o di una democraziaPerché questo non è un caso, ma la fotocopia di un paradigma che, soprattutto al Sud, e in special modo in Calabria, porta a giudizio cittadini innocenti in una percentuale di casi che supera il cinquanta per cento. Si può forse definire errore una casistica così imponente? E si può definire errore l’esito di un processo che poggia su una «suggestione» della quale esista, come spiega la Corte, prova contraria? No, di errore non si può parlare anche per un motivo, per così dire, sistemico. Un errore ha sempre una responsabilità. Di questa abnorme sentenza, che è costata la libertà e la carriera a un rappresentante della Repubblica, nessuno invece risponderà.

Allora conviene fare uno sforzo e immergerci nella patologia del sistema, se vogliamo venire davvero a capo di esiti così paradossali. La sentenza del tribunale di Reggio racconta una giustizia che ha anzitutto sostituito la colpevolezza con la pericolosità, il reato con il reo, e la prova con il sospetto. Ciò ha origine anzitutto nella legge, cioè nel codice penale, che prevede ormai tante fattispecie di reato senza un requisito essenziale: la tipicità, cioè una linea di demarcazione tra ciò che è lecito e ciò che è vietato e sanzionato. Il voto di scambio politico-mafioso è una di queste figure. I suoi contorni sono elastici, perché frutto di una legge scritta con i piedi e viziata da una tentazione ideologica. Non colpisce lo scambio tra voti di mafia e favori alla mafia, ma la stessa promessa, cioè porta la legge penale in una zona grigia che anticipa il reato e che coincide con la ricerca del consenso, propria dell’attività politica. Con l’obiettivo di anticipare la tutela, sostituisce la repressione di un illecito con la sua prevenzione. Se il bersaglio della legge non è più lo scambio tra politica e mafia ma la promessa dello scambio, l’unica prova possibile sono le intercettazioni, cioè l’unico strumento capace di inseguire il male nel suo processo di formazione, sotto forma di intenzioni, promesse, emozioni che, sotto la coltre della vita pubblica, è possibile captare. L’investigazione cessa di essere uno strumento per accertare un fatto illecito vietato dalla legge e diventa una sorta di psicanalisi sociale, un viaggio nell’inconscio delle comunità, compiuto non dall’orecchio di un terapeuta, ma da quello di un solerte brigadiere della polizia giudiziaria, che ascolta, trascrive, assembla, ricostruisce non tanto ciò che è accaduto, ma soprattutto ciò che potrebbe accadere.

Con l’effetto spesso di deformare quei frammenti di vita e di pensiero strappati alla riservatezza dei singoli e di rimontarli in un puzzle, incollandoli con il sospetto di polizia. In nome della lotta alla mafia la giustizia si è trasformata in una macchina di sorveglianza sociale. Ma soprattutto in una macchina dove sfuma la distinzione tra l’efficienza dell’azione penale e l’errore. Una macchina appunto capace di portare a giudizio una intollerabile quota di innocenti. La lassità della legge suggerisce anche la lassità dei suoi interpreti. Che dilatano il perimetro dei reati come un palloncino e che torcono le regole, piegandole a una logica di risultato. Così le intercettazioni vengono impiegate a gogo, alla prima notizia criminis, e poi prorogate a strascico. Così la custodia cautelare viene disposta anche quando manchino i requisiti di attualità e di concretezza del pericolo di fuga, di ripetizione del reato e di inquinamento delle prove, richiesti dalla legge. Tra il diritto formale e quello di strada si apre un crepaccio immane. Una Corte d’Appello o di Cassazione, forse, prima o poi, lo sormonterà, riavvicinando la legge alla giustizia e dimostrando che anche a Reggio Calabria, e non solo a Berlino, esiste un giudice. Peccato che compaia sulla scena solo quando lo tsunami è compiuto, dopo anni di privazioni, di dolore, di danno e di lutti. Quando l’idea stessa di un ripristino, o di un risarcimento, suona come l’ultima beffa.