L’articolo di Alberto Cisterna, dal titolo “Il meridionalismo securitario”, mi spinge ad intervenire, allargando i confini della riflessione. Da spirito libero e dotato di fine intelletto, Cisterna ci segnala quanto la riduzione “forzata” della questione meridionale a mera questione criminale sia stata una ricetta fallimentare e oramai logora per debellare le mafie nel Sud. Purtroppo, però, quella ricetta fallimentare ha comportato, specie sul territorio calabrese, effetti collaterali esiziali. Ha contribuito ad indebolire gli anticorpi della società meridionale, già sfiduciati per un cambiamento tradito, che avrebbero potuto contrastare la devianza criminale ed è stato il grimaldello legale per la definitiva cancellazione di politiche meridionalistiche.

Con l’ulteriore conseguenza di avere stimolato gli egoismi delle regioni forti e di avere tirato la volata al nascente leghismo. È un fenomeno che affonda le radici nella seconda metà degli anni ’70. Anni di forte crisi economica e sociale e dell’emergenza terroristica. Maturano allora i germi dell’abbandono di interventi per lo sviluppo del Sud, sostituiti da politiche distorsive dello Stato di diritto. Una nuova “solidarietà nazionale” per rispondere con fermezza ai fenomeni criminali diffusi, mafia e terrorismo. È qui che avviene la dirompente azione di immedesimazione della questione meridionale con quella criminale, in chiave esclusivamente repressiva. È qui che si supera l’antimafia sociale del movimento sindacale di Giuseppe Di Vittorio, del suo “Piano del lavoro” che identificava nella disoccupazione il nemico numero uno da debellare. All’indomani dell’assassinio del sindacalista socialista Salvatore Cardinale, nel 1955, proprio Di Vittorio, scrivendo alla madre dell’ucciso, indicava nella “marcia dei lavoratori verso un avvenire di pace, di benessere, di maggiore tranquillità per tutti” la risposta più efficace e risolutiva alla violenza mafiosa. Altro che superprefetti, superprocuratori, leggi speciali o nuclei investigativi.

La lotta alle mafie doveva essere una lotta di popolo, non certo per inseguire un vuoto concetto di “legalità”, quanto, piuttosto, per realizzare migliori condizioni di vita, economiche e sociali, bonificando le paludi sociali al cui interno sguazzavano i germi parassitari della malavita. Così, abbandonata ogni speranza di sviluppo, la lotta alla mafia è diventata l’unica risposta ai mali del Sud. Una grande questione appaltata, in un nuovo feudalesimo, agli apparati repressivi dello Stato, piegando alle logiche della guerra anche gli interpreti della funzione giudiziaria, i magistrati, alcuni dei quali assumeranno il ruolo di “eroi senza macchia” nella terra dei dannati. Poco importa se nella lotta senza quartiere cadono gli ultimi baluardi della fragile democrazia meridionale.

Amministrazioni comunali, partiti, sindacati, ordini professionali, classe imprenditoriale e, in certi casi, anche la Chiesa vengono sacrificati nel nome della lotta alla mafia. E così si criminalizzano anche le pagine di resistenza sociale, di ribellione popolare, di storia industriale, pur pensata, ma mai realizzata. Così “i fatti di Reggio”, scatenati dalla rabbia popolare e dalle disastrate condizioni economico-sociali della città, diventano una manovra golpista, programmata anzitempo dalla ‘ndrangheta con settori dell’eversione nera. Così la fabbrica, mai avviata, della Liquilchimica di Saline Joniche diventa il frutto di un accordo tra la ‘ndrangheta e la politica collusa. Il V Centro Siderurgico di Gioia Tauro, sostenuto dal sindacato e dai socialisti, ma boicottato dalla stampa e dal capitalismo padano, diventa un progetto ordito dalla mafia calabrese divenuta imprenditrice. Giacomo Mancini, simbolo della più incisiva politica meridionalistica mai sperimentata in Italia, viene processato per voto di scambio e associazione mafiosa. E così via per tantissimi amministratori, consiglieri regionali, sindaci, parlamentari.

Una specie di “soluzione finale”, ancora oggi in atto, che ha avuto l’effetto di rendere, agli occhi della gente, la politica meridionale, già debole, un insieme di malfattori e di mafiosi. Nemmeno la classe imprenditoriale viene risparmiata. Se non arrivano le manette, pronti i sigilli della prevenzione fondata sulla pericolosità oppure le stimmate delle interdittive prefettizie. Un vero e proprio inferno in cui barcamenarsi tra la violenza roboante della mafia e quella silenziosa dell’antimafia. E se la storia calabrese non offre spunti investigativi atti a guadagnare la ribalta nazionale, si può andare a rileggere altre pagine del passato in un’ottica criminale. E così si ipotizza che i defunti Craxi-Berlusconi si siano avventurati, di notte, nel bosco delle campagne reggine, alla fine degli anni settanta, per chiedere sostegno alla ‘ndrangheta per la discesa futura (1994) in campo del Cavaliere. O ancora, che lo stragismo mafioso degli anni ’90 era teso a fermare la “gioiosa macchina da guerra” di Occhetto e l’ingresso dei comunisti al governo, favorendo, al contempo, l’ascesa della Casa della Libertà. In un Sud preda di una devastante opera di desertificazione democratica e demografica tutto ciò, pur non verificabile, è ancora possibile.