La vera pace è disarmata: che cosa risponderei a uno studente che mi opponesse questa proposizione irrefutabile? Di studenti così, in giro, devono essercene, non ho dubbi, e devono trovarsi tra coloro che in queste settimane protestano per gli accordi di ricerca internazionale con Israele, o per i rapporti degli atenei italiani con l’industria delle armi. In mezzo a molti altri che forse manifestano portando altri argomenti, penso che ne troverei almeno uno capace di sostenere la mite fermezza di quella proposizione. A questo studente chiederei allora di spiegarmi bene cosa intende per pace vera, e perché le altre paci, quelle accompagnate dal silenzio delle armi, non sarebbero altrettanto vere. Forse gli chiederei anche di spiegarmi bene che cos’è un’arma, perché, se la pace deve essere vera, allora tutte le armi devono tacere: non solo le bombe e i missili, ma pure le pistole e i pugnali, e ogni genere di violenza, anche quella che si commette con le sole mani, e quella che passa dalle parole (taglieremo le mani? Toglieremo la parola?). E poi gli domanderei se tuttavia è consapevole del carattere utopistico di una simile pace, e come pensa di giungervi, e se può battersi e combattere per essa senza far guerra, e così allontanarla invece di farla vicina.

Però gli direi anche, con ammirazione, che una delle maggiori scrittrici italiane contemporanee, Natalia Ginzburg, ha scritto proprio così, che solo una pace disarmata è una pace vera, e che solo per essa val la pena battersi e manifestare. Forse anche occupare aule e atenei. Lo ha scritto, Natalia Ginzburg, nel marzo di quarant’anni fa, in mesi cruciali per la sicurezza e il futuro dell’Europa: nel novembre 1983 erano stati infatti dispiegati in Italia e in Germania, tra le proteste, i primi euromissili, in risposta allo schieramento da parte dell’Unione Sovietica e del Patto di Varsavia dei missili balistici nucleari SS-20, in grado di raggiungere qualunque città dell’Europa occidentale. Che era stata teatro di enormi manifestazioni pacifiste, le più imponenti dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Ginzburg chiedeva nulla di meno del «disarmo totale di tutto il mondo» e non poteva ammettere che la pace passasse attraverso il riarmo delle grandi potenze e dei paesi alleati. Che è però quello che, di fatto, accadde: l’Unione Sovietica cedette infatti sotto il peso delle proprie contraddizioni, spossata anche dal confronto militare con l’Occidente, e venne, con Gorbaciov, la (breve) stagione degli accordi per la riduzione degli armamenti.

Ma intanto so cosa potrebbe dire il mio studente: non v’è chi non veda che, se la pace è davvero pace, allora non è guerra; ma, se ci sono armi in giro, c’è già guerra, non pace. C’è possibilità di muovere guerra, ma una simile possibilità è già l’inizio della guerra: la preparazione della guerra è già un atto di guerra. Né è possibile vivere in pace se altri preparano la guerra: dunque solo il disarmo totale promette la pace, è vera pace. Proprio come diceva Natalia Ginzburg. E se io incontrassi uno studente che argomentasse in questo modo non potrei che apprezzarne il ragionamento, sospettando di essermi anzi imbattuto in un vero filosofo. Non saprei dargli ragione, ma di sicuro gli chiederei di continuare a discutere, e se necessario a litigare, senza temere di confutare e di essere confutato. Come lo Straniero, che nel «Sofista» di Platone definisce la confutazione «la più grande e la più potente delle purificazioni», gli chiederei allora di sottoporre le sue idee a tutti gli esercizi di quest’arte, senza risparmio di pensiero e di energie, senza soluzioni di comodo, senza la facilità dei pregiudizi o delle idee risapute. Gli direi: abbiamo trovato un terreno così importante, così decisivo, così cruciale, che ad esso non potremo dedicare meno delle nostre intere vite: non abbandoniamolo, dunque, e costruiamo anzi luoghi che ci consentano di condurre il nostro esame delle ragioni della guerra e della pace fino in fondo, fino allo stremo delle nostre forze. Costruiamo, così fece Platone, un’Accademia.

Non è un apologo: è una certa idea di un’università senza condizioni – utopistica anch’essa, lo ammetto. Università non come luogo di resistenza critica, ma come luogo di critica incondizionatamente aperto alla cultura e al pensiero: se infatti dico «resistenza» metto già davanti una certa idea del mondo o dei poteri che lo governano, senza sottoporla a critica. Così mi contraddico, e la mia povera dialettica cede subito alla confutazione. E cede anche se uso la violenza per mettere a tacere gli altri e far valere il mio punto di vista sulla pace, o su Israele: non posso costruire così quel luogo. Ma allora come? Non è sempre stata l’Università luogo anche rumoroso di contestazione e di dissenso? Certamente, ma la cosa porta con sé contraddizioni, ed è bene non nasconderle: reclamare di esserne esenti è una pretesa che il mio studente filosofo, con la sua esigenza radicale di verità, non può avanzare.

Così possiamo provarci. Non per spegnere le proteste in corso, riconducendole in un alveo più domestico di discussione, ma per nutrirle di tutta la conoscenza e la libertà dai pregiudizi di cui abbiamo bisogno. Il mio studente si accorgerebbe del pregiudizio favorevole che nutro nei confronti dell’Occidente, dell’atlantismo che sembra costituire per me quasi un presupposto necessario, e me ne chiederebbe conto, così come mi chiederebbe se non sia un massacro, una carneficina, un genocidio, quello perpetrato da Israele a Gaza, e se non stia violando ripetutamente il diritto internazionale e se non sia dunque responsabile di un conflitto che si trascina da decenni. Io, sono sicuro, gli concederei tanto, forse troppo, gli direi che Netanyahu non piace neanche a me e che vedo le sue responsabilità; gli riconoscerei la buona fede e non lo accuserei di antisemitismo (ma lo inviterei a prenderne con nettezza le distanze, perché ce n’è, eccome se ce n’è), ma infine proverei a chiedergli se sia vero quello che poco prima di morire disse Faisal Husseini – uno dei massimi dirigenti dell’Olp di Arafat, uno dei moderati – che per i palestinesi e per gli arabi gli accordi di Oslo erano solo un cavallo di Troia, un passaggio intermedio per arrivare alla Palestina libera dal fiume al mare (non sarai anche tu, gli domanderei, tra coloro che gridano quello slogan?). Dimentica Hamas, dimentica la Jihad, ha scritto David Remnick, e misurati con questo odio: finché sarà in campo, sarà sempre possibile che nella società israeliana prevalgano gli apostoli dell’ultranazionalismo, anche dopo che si sarà conclusa la parabola di Netanyahu. Perché gli estremismi si sostengono l’un l’altro, e rendono impossibile ogni compromesso.

Non riesco purtroppo a immaginare come potrebbe proseguire a questo punto la discussione, se la parola “compromesso” lo indignerà in tal maniera da rendere impossibile continuare, o se invece la metterà nel novero delle possibili soluzioni. In ogni caso, non proverò a dire, con aria di saggezza, che la politica è l’arte del possibile: non perché non sia vero, ma perché non voglio impartire lezioni. Non in una discussione come questa, intendo, in cui si ha diritto anche ad avere torto, e a rivendicarlo (è un diritto – devo dirlo piano, in modo che non mi senta – connesso anche all’età). Ci lasceremo al punto in cui eravamo anche prima di esserci confrontati? Anche questo è possibile. Ma non sarà stato comunque inutile, se sarà passata l’idea che al confronto si può chiedere almeno un reciproco riconoscimento. Che non passa attraverso l’uso della forza, per cui fuori la polizia dall’università e niente militarizzazione degli atenei, ma nemmeno attraverso il rifiuto dell’autorità accademica in quanto connivente con i peggiori poteri del mondo, per cui fuori gli studenti dai senati accademici, dove peraltro già siedono i loro legittimi rappresentanti.
È una via stretta, che però si ha il dovere di percorrere, mettendo da parte le chiusure ottuse e silenziose dei molti, ma anche la prevaricazione assordante dei pochi. Solo così lasceremo che il dio della confutazione si eserciti ancora con noi.