L'affondo del leader Anm
Se le toghe chiedono alla politica di salvarle dal correntismo
Non può sottacersi che il discorso pronunciato dal presidente Santalucia al XXXV Congresso dell’Anm abbia un ordito fine e contenga spunti di un certo interesse per comprendere la postura che la magistratura italiana intende assumere a fronte dello tsunami minacciato dal prossimo governo di centrodestra. Dalle parole pronunciate nell’assise delle toghe ancor di più, quindi, si capisce che la nuova maggioranza sia chiamata a breve a scelte decisive.
La composizione laica del Csm, e in essa la scelta del prossimo vicepresidente, e la nomina del ministro della Giustizia sono due snodi imprescindibili ai quali la corporazione dei magistrati guarda con comprensibile preoccupazione. Nella sua prolusione il presidente dell’Anm si è ben guardato, ovviamente, dall’esprimere una qualunque indicazione, finanche per linee generali, circa il profilo che dovrebbe connotare il prossimo inquilino di via Arenula. Troppo delicata è la partita in corso tra le forze politiche che hanno vinto le elezioni e troppo ingombrante la figura del ministro uscente (Cartabia) per azzardare anche solo un cenno sul punto.
Mentre Santalucia non ha mancato di formulare un auspicio sulla scelta dei prossimi dieci componenti laici del Csm che il Parlamento in seduta comune dovrebbe, a breve, nominare: «siamo fiduciosi che il Parlamento saprà nominare una componente laica di alta statura che, per cultura giuridica e sensibilità istituzionale, agevolerà nel Consiglio che da qui a breve si insedierà il compimento di un processo di rinnovamento che, come sempre è accaduto, non può prescindere dalla buona volontà di donne e uomini». Ora è noto che il requisito della «sensibilità istituzionale» non è tra quelli che la Costituzione elenca per la nomina al Csm, posto che l’articolo 104 impone che i componenti laici siano individuati «tra professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio». È chiaro il messaggio: eviti la politica di spedire “guastatori” e “provocatori” a palazzo dei Marescialli e, soprattutto, eviti di replicare il metodo adoperato per la scelta dei vertici di Camera e Senato in cui è stata forte l’opzione per una chiara connotazione ideologica e identitaria.
Sarebbe interessante comprendere, allora, quali più specifici requisiti dovrebbe avere la pattuglia parlamentare all’interno del Csm, posto che – poco prima – il presidente dell’Anm non aveva mancato di stigmatizzare proprio il contegno della componente laica dell’organo di autogoverno nella gestione degli affari di sua competenza e proprio in relazione alle vicende emerse dall’affaire Palamara: «Non può negarsi però che l’analisi delle patologie sia stata condotta spesso a senso unico, che ad esempio nelle molte riflessioni critiche sulle degenerazioni all’interno del Csm si siano evidenziate soltanto le responsabilità della magistratura e che poco spazio sia stato dedicato alla comprensione delle ragioni per le quali la cd. componente laica non ha esercitato con la necessaria continuità, come il Costituente si attendeva, quella benefica opera di interdizione delle possibili distorsioni corporative della maggioranza togata».
Nel discorso manca la risposta a un quesito che – posto in questi termini – assegna alla componente laica del Csm l’inedita funzione di operare da “cane da guardia” delle degenerazioni correntizie e spartitorie cui la magistratura sembrerebbe, addirittura per sua vocazione, naturalmente portata. È questa, invero tra altre, la partizione politicamente e ideologicamente più rilevante dell’allocuzione di Santalucia. Si tratta di uno snodo che segna un approfondimento interessante nella lunga e decennale discussione sulle ragioni poste a fondamento dell’equilibrio che il Costituente ha inteso realizzare all’interno del Csm con la composizione mista del suo organo di autogoverno. Due terzi di togati e un terzo di esponenti di nomina parlamentare al fine di garantire che il Csm non si trasformi da autogoverno in autogestione della magistratura italiana e perché tra le sue mura si realizzi l’indispensabile mediazione tra le istanze di indirizzo politico delle forze parlamentari e quelle di terzietà e indipendenza delle toghe.
Ma in quelle parole, naturalmente, c’è dell’altro. Si intravede una chiara chiamata in correità verso la politica che, una volta entrata a palazzo Marescialli, si sarebbe acquietata, se non accodata, alle prassi clientelari e spartitorie senza esprimere alcuna funzione di “interdizione” verso i comportamenti e le opzioni più disinvolte. Si impongono un paio di riflessioni. Certo non si può sgranare oltre misura la filigrana sottile di queste considerazioni del presidente dell’Anm, ma è intuitivo che si intenda ricordare alla politica che la mala gestio corporativa non ha trovato un adeguato contrappeso nell’azione della componente laica del Csm che solo in rarissime occasioni ha mostrato compattezza e unità (si pensi alla nomina di Cantone alla procura di Perugia), e non si sarebbe sottratta alla tentazione di far quadrato con le correnti ideologicamente più affini. E, soprattutto, avrebbe abdicato a un’azione di controllo e di denuncia delle degenerazioni più evidenti.
Un tale assunto, ovviamente, contraddice la tesi negazionista secondo cui quella dell’hotel Champagne sarebbe stata la conviviale di pochi infedeli e che tutta la questione si ridurrebbe alla presenza di poche mele marce. Se l’intera azione delle correnti nel Csm dovrebbe essere passata al setaccio fine di un controllo dei laici, allora le dimensioni del problema non possono essere in alcun modo circoscritte a singoli episodi. E, invero, se così stanno le cose, anche la «sensibilità istituzionale» rischia di essere endiadi equivoca nel ragionamento che si intendeva sviluppare. È chiaro che sarebbero necessari avvocati e professori universitari poco o per nulla sensibili verso le istanze della corporazione e, piuttosto, saldamente convinti dell’esigenza di premiare merito, trasparenza, efficienza, a dispetto di ogni convenienza di parte.
Ma un ostacolo si frappone a questo condivisibile auspicio di Santalucia e lo ha ricordato Luigi Ferrarella il 12 ottobre scorso sulle colonne del Corriere della sera (“Giustizia: i confini dell’ipocrisia”) annoverando gli esiti di un complesso studio sull’organizzazione giudiziaria in Italia e le sue più vistose criticità: «Il primo è la concreta difficoltà nel giudicare i curricula dei candidati, dovuta all’eccessiva quantità di dati e indicatori in realtà scarsi per qualità, con pareri provenienti dai Consigli giudiziari tutti sempre positivi e privi di sfumature che permettano reali valutazioni, sicché Catino si sente confessare dai suoi intervistati che “a volte la strada più efficace sembra davvero quella di fare una telefonata ai colleghi dell’ufficio del candidato e chiedere pareri espliciti”». È un circuito informativo che, come le toghe ben sanno, opera in maniera possente e, a volte, totalmente arbitrario e opaco. In fondo molte delle chat di Palamara non sono che il risvolto di questo metodo disinvolto nell’acquisizione di notizie, informazioni, se non pettegolezzi e veleni. Alcuni hanno pagato, moltissimi altri – in circuiti alternativi e paralleli – l’hanno fatta franca.
Ora i componenti laici del Csm sono totalmente, o quasi, fuori da questo perimetro. Operano, spesso, alla cieca, senza disporre di referenti interni alla corporazione per cui o attivano (tramite i partiti di provenienza e nel loro interesse, se del caso) canali similari di comunicazione ovvero si affidano interamente alle indicazioni dei gruppi correntizi, al più cercando di influenzare questa o quella scelta. La componente laica è un’anatra zoppa, poiché del tutto asimmetriche sono le interlocuzioni possibili con la magistratura italiana rispetto alla componente togata. È vero, la riforma Cartabia ha previsto un paio di illeciti disciplinari proprio per contenere queste prassi distorte e sanzionare anche i membri del Csm che vi incorrano. Ma il punto vero è come assicurare a Palazzo dei marescialli informazioni attendibili, notizie affidabili sulle toghe in valutazione e per qualsivoglia fase della loro carriera.
Ma qui la questione si complica e ha ragione Santalucia quando stigmatizza uno snodo importante della legge Cartabia a proposito delle cosiddette pagelle di valutazione: «Non si è compreso che un discorso sulla responsabilità della magistratura non si sviluppa utilmente imboccando la direzione di una revisione dell’organizzazione in senso accentuatamente gerarchico, con pagelle, fascicoli delle valutazioni onnivori ove si trova di tutto per poter dire di tutto». Eppure in ciascun tribunale e in ciascuna corte, tutti, ma proprio tutti sanno chi sono i magistrati attenti e scrupolosi e chi sono i neghittosi, chi attende con diligenza e professionalità al proprio compito e chi svogliatamente smaltisce carte. L’emersione di questa cifra oscura della vera professionalità dei magistrati è il compito immane che attende chi voglia riformare davvero la magistratura italiana, sottraendola dalle nebbie di una omologazione che tanto si nutre di una sorta di sinistra omertà che alligna qua e là tra le toghe, ma anche tra gli addetti ai lavori, avvocati e personale amministrativo incluso.
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