La vera posta in gioco nel conflitto in Ucraina
Se l’Occidente non ferma Putin, la Cina punterà a Taiwan
Signor Direttore, non devo dissentire in questo caso da nulla ma sottoporre a lei e ai nostri lettori la cattura di alcun segnali aperti, cioè visibili a tutti, ma che per ragioni dovute – penso alla convulsione del giornalismo – non acquistano la posizione che è loro dovuta. Cominciamo dalla fine che, secondo segnali noti ma di cui si parla poco, è che l’Occidente sta preparandosi a dare una risposta alla Cina da cui dipenderà il nostro futuro. La Cina è per ora in stand-by: attende di sapere se avrà luce verde o luce rossa. È prudente, è potente, è filosoficamente attrezzata. Quale luce verde?
Il primo fatto: uno dei massimi intellettuali che esprimono opinioni autorizzate dal regime di Pechino, Wang Yiwei che insegna relazioni internazionali in Cina e negli Stati Uniti, ha dato alle stampe con il tacito consenso del Partito un pamphlet in versione sia cinese che inglese intitolato “Russian Syndrome” in cui spiega la poco limpida relazione fra la Cina e la Russia. Cita un esempio del passato: quello del 31 luglio del 1958, quando a Taiwan stazionava l’esercito nazionalista di Chang Kai-shek sconfitto dall’armata popolare del presidente Mao Zedong.
Taiwan era protetta da un contingente americano e Mao voleva colpire Taiwan per accrescere il proprio prestigio senza rischiare una reazione americana. Così, invitò a Pechino Nikita Krusciov, successore di Stalin, e con lui preparò una dichiarazione congiunta di amicizia subito divulgata nel mondo. Ma non appena Krusciov tornò a Mosca, Mao scatenò con un violentissimo attacco di artiglieria quella che passò alla storia come “Seconda crisi dello stretto di Taiwan”. Mao aveva giocato gli americani, sicuri che Krusciov fosse stato avvertito da Mao e che quindi l’Urss appoggiasse la Cina. Era meglio quindi essere prudenti di fronte al bombardamento cinese e così Mao ebbe la sua soddisfazione. Quando Krusciov capì di essere stato usato, racconta Wang Yiwei, ebbe un attacco isterico.
E oggi? Abbiamo sempre saputo e scritto che Putin è andato a Pechino il 4 febbraio all’apertura dei giochi olimpici, portando in dono una serie di documenti congiunti sino-russi nel ventennale del “Trattato di buon vicinato e di relazioni amichevoli fra Russia e Cina”. Dopodiché Putin torna a Mosca, attende che Xi chiuda le Olimpiadi e il 24 febbraio annuncia l’invasione dell’Ucraina.
Il professor Wang nel suo trattato sulla sindrome russo-cinese rivela che Putin non disse nulla a XI sull’imminente operazione militare speciale e che il Presidente cinese fu colto da un moto di rabbia simile a quello che aveva provato Nikita Krusciov nel 1958. Ma ormai il colpo era andato a segno: tutto il mondo ha concluso che l’invasione dell’Ucraina fosse avvenuta con la benedizione cinese e Wang spiega che a quel punto Pechino non poteva fare altro che tacere per non esporre l’alleato a una dannosa umiliazione. E così, senza mai aver approvato l’operazione militare russa, il presidente cinese seguita a rilanciare le dichiarazioni di eterna amicizia con la Federazione Russa. L’Occidente aveva preso nota del fatto che Putin aveva le spalle coperte dalla Cina e che ogni errore avrebbe potuto produrre catastrofiche conseguenze. Wang non è stato smentito e dunque ci si può chiedere perché la Cina, adesso e senza gridare, abbia voluto far sapere al mondo – ma più di tutti agli americani – di non essere in alcun modo coinvolta nell’avventura russa in Ucraina, malgrado le usuali dichiarazioni ideologiche.
Se questo fosse il messaggio, si dovrebbe concludere che la Cina non è un attore e non ha neanche intenzione di fare da mediatore, essendo vincolata da una sorta di fidanzamento politico con la Russia di Putin. Ma al tempo stesso, la Cina fa sapere di non avere intenzione di muovere un dito, o uno yen, per soccorrere i russi. E i russi? Come va la guerra dei russi? Si aprono due prospettive. Un lungo saggio di Foreign Affairs, la più autorevole rivista di politica estera, pubblica un accuratp reportage in cui documenta il fatto che i russofoni del Donbass, salvo sporadiche comparsate, non accolgono i russi come liberatori: nulla che somigli all’arrivo degli americani del generale Clark quando entrò a Roma fra abbracci e petali di fiori nel giugno del 1944.
In questo giorni è andato in onda un breve footage di meno di un minuto in cui si vedono ventisette soldati, che si dicono metà russi e metà ucraini, più un ceceno, i quali agitano le due bandiere. La spiegazione che dà Foreign Affairs è che dal 2014, per resistere alla travolgente corruzione degli oligarchi sia russi che ucraini, i cittadini della nuova repubblica ucraina hanno creato un tessuto politico e sociale di democrazia dal basso che elegge direttamente i sindaci sia di lingua russa che ucraina, essendo tutti giovani sotto i quarant’anni i quali non hanno alcun ricordo e meno che mai nostalgia dell’Urss.
Le truppe russe avanzano soltanto grazie ad una gigantesca supremazia di fuoco. La guerra è ormai soltanto incendio tossico. Le loro armi inoltre sono vecchie, molti residuati della Seconda guerra mondiale, così come succede anche agli ucraini che hanno un bisogno disperato di armi capaci di opporsi all’avanzata russa. I russi che hanno di fronte non sono i ragazzi della Russia europea ma poveri adolescenti delle campagne che circondano Mongolia e Cina. Le madri dei coscritti russi europei hanno imparato a fare chiasso quando vedono partire i loro figli che non sanno dove vanno.
E qui siamo al punto: pace o guerra? In genere i placidi europei occidentali considerano il primo ministro Boris Johnson un pazzo furioso perché sostiene che Putin deve essere sconfitto militarmente, e che debba mollare tutta l’Ucraina riportandosi a casa un’armata che ha attirato su di sé il disprezzo del mondo. Gli esperti militari considerano che gli ucraini hanno preso l’abitudine di rispondere ai colpi bombardando anche le città russe di frontiera così da diffondere la stessa angoscia e insicurezza di cui sono vittime in casa loro. Ma, in breve, si sta prospettando uno scenario in cui, anche senza far nulla, pur senza fornire agli ucraini più di quanto Stati Uniti e Regno Unito si sono impegnati a fornire l’armata di Putin avanza, ma lentamente e faticosamente, malgrado la nuova linea incursionista dei generali russi che mentre colpiscono il Donbass non cessano di colpire condomini e scuole anche a Odessa e Kiev.
Ma gli analisti dicono che le forze di Mosca non hanno la forza di finire prima dell’autunno il loro lavoro di conquista e che proprio allora, in autunno, l’Occidente (Stati Uniti, Regno Unito, Nato ed Unione Europea) devono prendere una decisione epocale dalla quale dipenderà comunque il nostro futuro. Peraltro, il nostro futuro dipenderebbe comunque anche da una “non decisione”. E ciè se incoraggiare gli ucraini a cercare una pace come che sia dopo un raggiunto cessate il fuoco cedendo una parte del loro territorio, o se invece (posizione inglese e con sfumature diverse americana e di alcuni stati europei) non sia il caso di costringere la Russia a mollare l’intero osso ucraino e ritirarsi dopo aver sperperato, vite, risorse e onore.
È qui che si torna alla Cina, convitato di pietra e arbitro impassibile. Come ha ben spiegato il professor Wang, la Cina ha un unico interesse: Taiwan. Ma sa che per Taiwan sono pronti a battersi non solo gli Stati Uniti, ma anche il Giappone e l’Australia, oltre al Vietnam comunista. La Cina ha creato forze armate di qualità pari a quelle americane, mai sperimentate in combattimento, ma non intende sprecare risorse e non intende essere messa al bando dal mercato americano cui vende la quasi totalità dei suoi prodotti.
Pechino sta con le mani in mano, inerte ma non disattenta per vedere in che modo si chiuderà la guerra in Ucraina. Dove i casi possibili sono due: o la Russia si dichiara pronta al negoziato e pronta a discutere i nuovi confini contenenti i territori strappati con la forza a un Paese sovrano, oppure trascinerà il conflitto ad oltranza. L’Occidente nel suo complesso sa che è nelle condizioni di fornire agli ucraini una potenza di fuoco da opporre a quella dell’invasore russo, tale da metterla a tacere.
Se l’Occidente decidesse di non concedere alla Russia alcun vantaggio territoriale dalla sua aggressione, avendo anche registrato l’inconsistenza del patriottismo filorusso di terre che devono essere conquistate centimetro per centimetro col ferro e col fuoco, la conseguenza sarebbe una sconfitta dell’attuale classe dirigente moscovita e non soltanto di Putin di cui si favoleggia continuamente il ritiro, l’arresto, la malattia, le dimissioni e altre disavventure propagandistiche. In quel caso, Pechino potrebbe considerare che una avventura militare per prendere insieme a Taiwan il cosiddetto Mare del Sud della Cina da cui passano i due terzi del traffico mercantile mondiale sarebbe un errore da pagare a caro prezzo. Stati Uniti e Regno Unito forniscono circa il 95 per cento delle armi e delle munizioni destinate all’Ucraina; dunque, la decisione sarà presa prima o poi in modo congiunto da Londra e Washington. Ma l’Europa non vuole restare indietro e le riunioni della Nato appena concluse indicano che il vento è cambiato e che già si lavora per due obiettivi che vanno, oltre la guerra: la ricostruzione dell’Ucraina e i nuovi assetti della Russia del dopo Putin. La fine è vicina, anche se non è ben chiaro di che cosa.
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