Woke corner
Problemi interi, soluzioni spezzettate
Se non produci non sei normale ma difettoso, anche l’inclusione si piega al capitalismo
Richard è il papà di Isabel. Isabel è tante cose, ma anche una ragazza con un disturbo dello spettro autistico. Anche Richard è tante cose: un professore universitario, un antropologo che ha girato il mondo, ma è soprattutto un papà preoccupato di fare il meglio per Isabel. Richard Grinker ha scritto dei libri in cui racconta la sua esperienza con Isabel e con l’autismo, mantenendo, al contempo, il ruolo di papà e di antropologo.
Il modello del “cervello rotto”
Nel suo ultimo libro, “Nobody’s Normal”, afferma che la stigmatizzazione della diversità è iniziata con il capitalismo, quando la “produttività” è divenuta il metro per valutare il valore individuale. Chi non si conformava agli standard produttivi veniva etichettato come “anormale” o “malato”, e ciò che prima era semplice variabilità umana è stato medicalizzato, portandoci a vedere le persone come difettose o portatrici di deficit. Abbiamo accettato incondizionatamente il modello del “cervello rotto”: cervelli che funzionano (la normalità) e cervelli che non producono. Tutto qui.
La psicologia e la psichiatria hanno adottato questo approccio, e il DSM-5 (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) è diventato la nuova bibbia per definire cosa fosse “rotto”. Oggi siamo alla DSM-5. Fino alla versione 2, pubblicata nel 1968, l’omosessualità era considerata un disturbo mentale. Solo nel 1973 l’American Psychiatric Association (APA) ha “votato” per rimuoverla, sostituendola temporaneamente con il “disturbo dell’orientamento sessuale ego-distonico”, (tradotto: mi sento a disagio per il mio orientamento) eliminato poi nel 1987. È difficile immaginare altre scienze in cui le decisioni vengano prese attraverso una votazione. Se avessimo proceduto così in altri campi, votando magari nel momento sbagliato, rischieremmo ancora di credere che il Sole giri intorno a una Terra piatta.
L’inclusione manna per il business
Tante cose sono cambiate in meglio. Sembrava che le cose stessero realmente cambiando, che il mondo fosse sul punto di essere migliore, quando – all’improvviso – anche l’inclusione si è piegata all’approccio capitalistico. Una mattina ci siamo svegliati e qualcuno ha iniziato a dire che l’inclusione era la manna per il business, che le aziende inclusive producevano di più e quindi erano più remunerative e performanti. Le grandi società di consulenza hanno impacchettato la ricetta e l’hanno diffusa nelle aziende. Questo ritorno al metro capitalistico ha fatto arretrare l’inclusione. L’abbandono di una prospettiva etica, per una economica, ha creato profonde spaccature e ha permesso ai detrattori dell’inclusione di strumentalizzare questa visione. Le “retromarce” sull’inclusione di alcune grandi aziende, soprattutto americane, ne sono un esempio.
Problemi interi, soluzioni spezzettate
Sarà per una mia personale allergia a tutte le cose che finiscono in -ismo, ma anche l’inclusivismo a tutti i costi non mi piace affatto. L’inclusione è una nuova prospettiva, un’opportunità per ciascuno e ciascuna di noi. È l’idea sostenibile che qualcuno, forse Dio, abbia voluto fare un gioco con noi. Ci ha dato molti problemi e altrettante soluzioni. Mentre i problemi li ha lasciati interi, per vederli bene, le soluzioni le ha spezzettate e distribuite casualmente.
Se vogliamo risolvere un problema, dobbiamo unirci, mettere insieme il pezzettino che ognuno di noi ha in dote. Unire, connettere, integrare per risolvere insieme. L’inclusione è l’arte di cucire questi frammenti di soluzione per affrontare grandi sfide. Dopotutto, ciascuno di noi da solo non vale un granché. L’inclusione non riguarda gli altri, non riguarda Isabel e non è per Isabel. L’inclusione interessa me e soprattutto me. È la possibilità, la mia unica possibilità, che il mio pezzettino di soluzione possa essere utile. Che possa non andare perso. Che io possa non andare perso.
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