La risoluzione adottata mercoledì scorso dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, riguardante “Le azioni illegali di Israele a Gerusalemme Est occupata e nel resto dei Territori Palestinesi Occupati”, fa il verso a un passo del “parere” emesso il 19 Luglio, sullo stesso argomento, dalla Corte Internazionale di giustizia. In quella sede la Corte scriveva che Israele avrebbe dovuto con urgenza ritirarsi dai cosiddetti “territori occupati, inclusa Gerusalemme Est”, con obbligo di evacuazione della totalità dei coloni.
Il tutto, guarnito dal dovere degli Stati membri e della stessa Onu di boicottare ogni iniziativa che comportasse “aiuto o assistenza” nel mantenimento della situazione di occupazione. E l’Assemblea Generale, con quest’ultima risoluzione, fa appunto il verso al vagheggiamento della Corte secondo cui lo Stato di Palestina sarebbe predisposto a “vivere fianco a fianco in pace con lo Stato di Israele” se soltanto questo ritraesse la sua grinfia coloniale da quei territori.
Il presupposto, spiegano ora le Nazioni Unite, è che Israele avrebbe “ostacolato il diritto del popolo palestinese di determinare liberamente il proprio status politico e di perseguire il proprio sviluppo economico, sociale e culturale”, di modo che non si tratterebbe d’altro che di rimuovere quell’ostacolo per ottenere la fioritura di un ordinamento palestinese economicamente, socialmente e culturalmente compatibile con quell’equilibrio di pacifica convivenza. L’Onu ovviamente è troppo ispirata per occuparsi di due fattori di dettaglio che rendono a dir poco problematici, se non certamente impossibili, almeno per ora, quello sviluppo e il raggiungimento di quel risultato.
Il primo: che non si ha nessuna riprova, anzi si ha grave indizio del contrario, che il degrado economico, civile e culturale dei palestinesi dipenda esclusivamente dall’occupazione israeliana. Il secondo, anche più importante: che non c’è indizio, anzi c’è prova del contrario, che le dirigenze palestinesi abbiano l’ambizione di vivere in pace con Israele. Questa doppia realtà sottovalutata spiega la gemma eminente nel castone di quest’ultimo prodotto delle Nazioni Unite, una specie di auto-denuncia con cui l’Assemblea Generale dichiara che lo Stato Ebraico non solo può, ma deve, sopportare un vicinato voglioso e capace di aggredirlo: “le preoccupazioni di Israele per la sicurezza”, scrive l’Onu, “non possono prevalere sul principio del divieto di acquisizione di territorio con la forza”.
Che quelle preoccupazioni per la sicurezza di Israele siano fondate o no, evidentemente, è una capziosa minuzia che non interessa agli estensori e agli entusiasti sottoscrittori di quella risoluzione. La comunità internazionale, davanti a una situazione pur maculata di pesanti illegalità (ma non è la complessiva illegalità di cui si dice), dovrebbe considerare non solo di porvi fine, ma di farlo non lasciando che la fine dell’occupazione incoroni il potere di chi vuole la fine di Israele.