Fautore della riforma elettorale che ha dato vita alla Seconda Repubblica, Mario Segni – che nei Palazzi tutti chiamano Mariotto – ha guidato il fronte referendario quando ha proposto, per primo, di introdurre il maggioritario in Italia. Da allora il sistema politico si è bipolarizzato a valle, ma non a monte: le segreterie dei partiti determinano, ciascuna in proporzione al proprio peso, le liste elettorali e i candidati in posizione eleggibile o non eleggibile.

Sta cambiando l’uso che si fa dei referendum? La politica ha preso la referendite…
«I referendum rimangono un istituto importantissimo per la democrazia. Un istituto che la partitocrazia e tutta la classe dominante ha sempre combattuto, perché il referendum ha sempre ostacolato il manovratore. Quelli che avevo promosso io sono rimasti gli ultimi grandi referendum per partecipazione popolare».
Certo non si raggiunge più il quorum da 13 anni.
«Ed è un gran male. Il referendum è uno strumento prezioso per la democrazia. Ed è una grave colpa dei politici quella di non aver mai voluto capire che la democrazia significa anche questo: interpellare direttamente i cittadini».

Cosa serve ai referendum per tornare ad avere efficacia?
«Partecipazione. Se non si va più a votare neanche per le elezioni politiche, è difficile pensare che si possa raggiungere il quorum così come è adesso… Basta fare una campagna organizzata per l’astensione, anziché per il no, e via. Si fa fallire il referendum. Ne so qualche cosa, di questo…».
Come si può cambiare la legge sul quorum?
«Avevamo fatto una proposta che era stata studiata da Augusto Barbera, oggi presidente della Corte costituzionale, che era quella di fissare il quorum alla metà dei votanti delle ultime elezioni politiche».
Ovvero?
«Alle politiche dell’ottobre 2022 ha votato il 70 per cento degli aventi diritto? Allora il quorum per i referendum va fissato al 35%. Perché si deve basare sull’interesse che riscontra presso coloro che partecipano al voto. Bisogna adeguare il quorum sulla base di chi vuole interessarsi della cosa pubblica, altrimenti chi non vota determina, ignorando gli istituti democratici, anche conseguenze dirette sulle scelte politiche del paese».

D’altronde oggi la politica pensa di parlare con l’opinione pubblica attraverso i social, più che con le consultazioni popolari.
«Siamo alla scomparsa delle forme di aggregazione tradizionali della politica, sostituite dai social che però danno solo l’impressione del dialogo tra elettori ed eletti. Dai social poi si guarda al mondo in modo molto particolare».
La rappresentanza pubblica è in crisi?
«Trovo che in questo momento sia completamente dimenticato un aspetto grave, nella crisi della politica. La crisi del Parlamento. Che è svuotato di poteri, impoverito, privato della sua capacità di lavoro. Una crisi che viene da lontano.
Parla dell’iperdecretazione?
«Anche. Oggi vedo che il Parlamento è convocato perlopiù per ratificare i decreti del governo. Ma risalirei a prima: al momento in cui si sono fatti i listini bloccati, dando tutto il potere ai partiti. Centri di potere esterni al Parlamento. La crisi del Parlamento ha una soluzione: la legge uninominale secca.
Ogni collegio elegge un deputato, e se i suoi elettori fanno riferimento a lui senza incertezze, lui sa che per essere rieletto deve rendere conto a loro».

Un Parlamento forte non significa un governo meno forte…
«Affatto. Guardi agli Stati Uniti: hanno il Parlamento più forte del mondo e il governo più forte del mondo. Check and balance che funzionano».
Chi ha ucciso il parlamentarismo che funzionava?
«Quella controriforma che è stata la reazione alle riforme referendarie. Il Porcellum ha pugnalato a morte non solo gli elettori del maggioritario, quasi cancellato, e sostituendolo con le liste bloccate. Hanno dato tutto il potere ai partiti e questi lo gestiscono come conviene a loro».
Hanno fatto anche un referendum confermativo, quindi senza quorum, per tagliare il numero dei parlamentari…
«E io ero contrario. Anche perché non era accompagnato da niente, se non dallo slogan ‘Così spendiamo meno’. Ma se lo scopo è spendere il meno possibile, tanto varrebbe chiuderlo, il Parlamento».

La grande riforma del premierato la convince?
«Se fosse accompagnata dal ritorno dell’uninominale sul serio, sarebbe una riforma importantissima e utile al paese. Con i check and balance che servono: premier forte e Parlamento autonomo, con una sua capacità dialettica. Insomma: torniamo al Mattarellum, col collegio uninominale per tutti».
Il potere unico non la preoccupa?
«L’Italia è un paese con talmente tanti poteri periferici che un premier più forte non mi preoccuperebbe assolutamente. Peraltro, invece, un premier forte eletto con un Parlamento autorevole, con una sua rappresentatività autonoma perché eletto con l’uninominale secca, darebbe vita a un equilibrio di poteri efficace ed equilibrato. Purtroppo temo che nessuno dei partiti che vediamo oggi voglia i parlamentari autonomi dal loro controllo».
Il centrosinistra teme addirittura per la democrazia…
«Se la sinistra volesse fare davvero una battaglia di democrazia, dovrebbe dire di no alle liste bloccate. Dovrebbe dire di fare il premierato, con il vero contrappeso del Parlamento scelto dai cittadini. Collegio per collegio, eletto per eletto».

La crisi dei riformisti, dei centristi, però è figlia del bipolarismo.
«Il sistema si è bipolarizzato e questo va a scapito dei piccoli gruppi. Se si vuole stabilità, bisogna che i moderati si alleino e guidino i poli, non che ne rimangano estranei».
E l’autonomia differenziata, la convince?
«Ne do un giudizio negativo, rischia di avere in prospettiva effetti dannosi.
Aggiungo che a questo traguardo di questa riforma, che non mi convince, hanno contribuito centrodestra e centrosinistra.
In parti uguali. Perché tutto nasce dalla riforma del titolo V della Costituzione, nata con il governo Amato e per la supervisione di Elia. È quella riforma che oggi viene ripresa e ampliata da Calderoli».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.