L'intervista per il Giorno della Memoria
“Selfie con i forni crematori, ma Auschwitz non è un’attrazione turistica”, il racconto della guida del campo simbolo della Shoah
Non è la bellezza, e neanche la meraviglia, nessuna sindrome di Stendhal. Non è questo il mestiere delle guide turistiche del campo di concentramento di Auschwitz. E infatti, formalmente, non sono guide: sono definiti educatori. Jadwiga Pinderska-Lech è educatrice e responsabile della casa editrice che si trova all’interno del museo-memoriale di Auschwitz-Birkenau, nell’edificio di mattoni dove aveva il suo studio Eduard Wirths, il medico-capo del campo a cui faceva riferimento Josef Mengele. Il mestiere delle guide che accompagnano i visitatori che arrivano ogni giorno da tutto il mondo – non in questo periodo, per via della pandemia da coronavirus anche la cerimonia del Giorno della Memoria è stata tutta virtualizzata online – sono i rastrellamenti, le deportazioni, le torture, la Soluzione Finale. Quello che tutto il mondo commemora il 27 gennaio, loro lo ricordano ogni giorno.
Le dimensioni non sono mai state precisate: tra 15 e 17 milioni di vittime, secondo l’Holocaust Memorial Museum di Washington; oltre cinque milioni di ebrei, e prigionieri di guerra, polacchi, rom e sinti, omosessuali, testimoni di Geova, slavi, dissidenti politici. La parola Olocausto, in ebraico, significa “bruciato interamente”, “sacrificio supremo”. Shoah vuol dire “catastrofe”, “distruzione”. Auschwitz-Birkenau – il campo più esteso realizzato dai nazisti, un complesso, con il campo di Birkenau, quello di lavoro di Monowitz, e altri 45 sotto-campi – è stato costruito nella metà del 1940 ed è stato liberato dall’Armata Rossa sovietica il 27 gennaio 1945. È diventato il simbolo del più grande sterminio del ‘900. Oltre 300 guide, più di due milioni e 200mila visitatori nel 2019. La più grande attrazione della Polonia.
Francesco Guccini – il padre fu deportato in Germania – ha cantato che in quel vento non riusciva ancora a sorridere, nonostante tutto il tempo passato. Oggi c’è gente che arriva e si scatta i selfie. Il 15,6% degli italiani non crede all’Olocausto (dati Eurispes 2020), nel 2004 era il 2,7%. Secondo il Pew Research Center dolo il 45% degli americani conosce approssimativamente questa storia. Jadwiga Pinderska-Lech accompagna da quasi vent’anni i turisti italiani. Parla un italiano perfetto. Spesso è venuta in Italia – collabora con Il treno della memoria, con le università, è stata a Bari, a Novara, a Roma, a Firenze, con la Fondazione Memoriale della Shoa della capitale, con il Salone del Libro di Torino. Mentre sempre meno testimoni potranno raccontare l’orrore, lei mette insieme le voci dei superstiti, le ascolta, le porta sulla carta, legge e recupera quelle raccolte da altri prima di lei. Non una testimone, è una medium. Mantiene accesa la fiamma.
Com’è arrivata a lavorare ad Auschwitz, era il suo obiettivo?
“No, è stato un caso. E una storia cominciata molti anni prima di quando ho cominciato. Studiavo lettere polacche e lettere italiane all’Università di Cracovia quando ho letto un annuncio: cercavano guide che parlassero lingue straniere. Mi sembrò una proposta interessante. Mi preparai per l’esame ma quando studiavo, e leggevo dello sterminio, dei deportati, anche bambini, il tema mi respingeva. Il giorno dell’appello ho rinunciato a dare l’esame. Ero troppo coinvolta emotivamente”.
E poi cos’è successo?
“Sono andata in Germania per una borsa di studio. Quando sono tornata in Polonia, con mio marito, ci siamo trasferiti proprio qui, ad Oświęcim. Il museo cercava laureati in lettere che lavorassero ai testi della casa editrice. E quindi ho dato tutti gli esami e sono entrata. Ricopro una doppia funzione: dal 2002 accompagno i visitatori italiani e dal 2005 sono responsabile della casa editrice del Museo di Auschwitz: scelgo i temi, parlo con gli autori e i testimoni, sono membro del comitato redazionale”.
Ricorda la sua prima volta al campo?
“Certo. Consideri che per i polacchi la visita ad Auschwitz è qualcosa che fa parte del percorso educativo. Ma io non c’ero mai stata prima dell’esame che poi ho dato e superato. Ci sono andata mentre studiavo. Mi ricordo la prima volta: era una giornata molto buia, il campo completamente vuoto. Ho preso una guida in polacco. È stato impressionante, un’esperienza molto pesante”.
Parla il tedesco, accompagna anche i visitatori tedeschi?
“No, e non so se mi piacerebbe farlo”.
Ha notato dei cambiamenti in questi anni?
“Fino al 2005 gli italiani che arrivavano soprattutto in camper. Facevano giri per l’Europa dell’Est. Non tantissimi. Dal 2005 è cominciata ad arrivare molta più gente. Con il 60esimo anniversario della liberazione il tema è diventato molto popolare e discusso. La cerimonia è stata trasmessa in 60 paesi. C’erano 10mila persone a Birkenau, mille sopravvissuti”.
È un lavoro che riesce a entrare in una routine?
“No, assolutamente. Il tema è pesante. Non raccontiamo quadri, opere d’arte, raccontiamo cose spaventose. Mostriamo gli oggetti che appartenevano a persone torturate, a bambini ammazzati. Non tutti ce la fanno, molti rinunciano, pur passando gli esami. E poi è comunque un lavoro nel quale devi sempre relazionarti con le persone che hai davanti. Non c’è mai un gruppo uguale all’altro e le reazioni che noti ti portano a modificare, anche improvvisare, aggiungere dettagli”.
Ricorda delle visite in particolare?
“Ricordo quella di Sami Modiano (ebreo italiano, deportato ad Auschwitz e sopravvissuto, Cavaliere della Repubblica Italiana, Croce al merito di Germania, ndr). Era la prima volta che tornava al campo dalla liberazione. Vedere la sua emozione è stata una cosa enorme. Una volta una ragazza, provata dal racconto, è svenuta. Una famiglia, dopo la visita, mi ha cercato: quell’esperienza le aveva cambiato la vita, mi hanno detto. Siamo rimasti in contatto e hanno cominciato a invitarmi, a fare degli incontri, a Novara, sempre con un sopravvissuto. E poi ci sono anche delle visite un po’ strane”.
Di che tipo?
“Persone che avevano ricevuto il viaggio come regalo per il compleanno, per esempio. O visitatori che mi hanno raccontato che venire ad Auschwitz era il loro sogno. Hanno usato proprio questa parola: sogno. Non erano ebrei. Mi hanno detto che fin da bambini sognavano di venire”.
C’è gente che ha atteggiamenti sbagliati, irrispettosi?
“Purtroppo sì. Molti vedono Auschwitz semplicemente come un’attrazione turistica. E non lo è. E poi ci sono gli appassionati di turismo nero. Quindi sì: capita. Capita anche che, specialmente in alcuni gruppi linguistici, quando si parla dei rom deportati si sentano battute infelici. Commenti razzisti, non spesso ma succede. Oppure ci sono persone che scrivono sulle baracche a Birkenau, chi si accende una sigaretta. Naturalmente anche gente che scatta selfie, che si mette in posa con i forni crematori, o con i capelli delle vittime, per non parlare della scritta Arbeit macht frei”.
E voi come reagite?
“Io personalmente sono paziente ma naturalmente c’è un limite. Altre guide non sono così tolleranti”.
Cosa pensa dei negazionisti?
“Raramente abbiamo a che fare con loro. Semplicemente non vengono o quando vengono non si manifestano. Da quando abbiamo le cuffie e i microfoni i commenti sono comunque diminuiti”.
Li inviterebbe al campo?
“Sicuramente non in gruppo”.
Crede sia cresciuto il negazionismo in questi anni?
“No, non credo. E non so se davvero credono a quello che dicono e se vogliono solo scandalizzare, attirare l’attenzione”.
Da anni andate al Salone del Libro di Torino. Nel 2019 siete stati protagonisti del caso Altaforte, la casa editrice vicina a idee in odore di fascismo.
“Come ogni anno ho portato una sopravvissuta. Halina Birenbaum (scrittrice, poetessa, superstite dell’Olocausto, ndr) che doveva tenere un incontro con gli studenti. Quando ha saputo che avrebbe condiviso lo stesso tetto con quella casa editrice ha detto che non avrebbe partecipato all’incontro. Abbiamo scritto una lettera di protesta ed è scoppiato il caso. Lo stand di quella casa editrice (che per l’occasione doveva presentare una biografia del segretario della Lega, e allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, ndr) alla fine non è stato ammesso”.
Tutti i giorni è a contatto con l’olocausto, mentre tutto il mondo lo commemora una volta all’anno. Che idea si è fatta del bene e del male, dell’essere umano, dove trova una speranza?
“Parlano le testimonianze. Ragazze polacche che avevano 13 o 14 anni durante lo sterminio lavoravano nelle case dei nazisti, vicino ad Auschwitz, spesso espropriate ai polacchi. Hanno raccontato, in un libro che abbiamo pubblicato che quegli uomini erano tranquilli, affettuosi, giocavano con i bambini, i cani, i gatti e tutto quanto. Erano dei buoni padri di famiglia. La mattina si alzavano, facevano la colazione, prendevano un panino, lo mettevano nella borsa e andavano al lavoro. Ogni essere umano può diventare una bestia. La banalità del male. Dall’altra parte penso proprio ad Halina Birenbaum. Tutta la sua famiglia è stata uccisa, ha perso tutto e ha scritto un libro, La speranza è l’ultima a morire, per dire che lei non ha nel cuore l’odio. Dice di non poter parlare a nome delle persone ammazzate, che prova rabbia, che non può dimenticare, ma che prima di odiare vuole continuare a vivere. È molto attiva, aperta, viaggia, spesso in Germania, e racconta la sua tragedia. Un atteggiamento che ho trovato anche in altri sopravvissuti. Trovo in questa voglia di vivere una speranza nel genere umano”.
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