Per molto tempo ho insegnato macroeconomia di mattina presto (semicit.), e ho sempre ritenuto importante spendere un numero congruo di ore per spiegare i concetti iniziali, cioè il Prodotto interno lordo (Pil), il tasso di inflazione e il tasso di disoccupazione. Il concetto relativamente più semplice è quello del tasso di disoccupazione, in quanto si calcola come il rapporto tra il numero di persone che in un certo mese non sono occupate e cercano un posto di lavoro (il termine al numeratore) e il numero totale di lavoratori e persone disoccupate (numero di lavoratori sommato al numero di disoccupati).

Dato che la somma di lavoratori e disoccupati costituisce la forza lavoro, cioè il numero potenziale di persone che possono lavorare (chi già lavora e chi vorrebbe farlo), il tasso di disoccupazione esprime la percentuale della forza lavoro che non trova un lavoro, pur volendolo.

Ovviamente, il funzionamento del mercato del lavoro non può essere sintetizzato dal solo tasso di disoccupazione, in quanto bisogna verificare quali dinamiche eterogenee si annidano dentro di esso. A questo proposito, i recentissimi dati di Unioncamere e ANPAL mostrano difficoltà crescenti per le imprese nel reperire i lavoratori con le qualifiche professionali adatte: il dato di settembre è che nel 48% dei casi le imprese hanno difficoltà a reperire la persona adatta, in salita dal 43% di agosto.

Il fenomeno non deve essere trascurato, perché indica un problema di “disallineamento” (mismatching) tra le competenze cercate dalle imprese e le competenze di cui i lavoratori sono dotati grazie al sistema di istruzione, all’apprendimento sul posto di lavoro e alle politiche attive del lavoro, appunto finalizzate a fornire loro le competenze desiderate sul mercato del lavoro stesso. Ovviamente, l’unico preoccupante modo per non preoccuparsi di ciò è quello di convincersi che i posti di lavoro possano essere creati per decreto, o per referendum abrogativo (del Jobs Act).