La sentenza che il popolo aspettava da nove anni per Ilva è arrivata: 22 e 20 anni di reclusione per Fabio e Nicola Riva, tre e mezzo per Nichi Vendola, e la confisca dell’area a caldo. Sentenza certamente non esecutiva, perché siamo ancora al primo grado. Ma che come ha cantato il tarantino Diodato vincendo Sanremo “fa rumore”. Il reato contestato è di associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, avvelenamento di sostanze alimentari e omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. Mille le parti civili, con oltre trenta miliardi di richieste di risarcimento.

Un maxi processo difficilissimo, in cui si sono avvicendati durante il dibattimento centinaia di testi tra periti e scienziati, per chili infiniti di faldoni e controperizie, che hanno totalmente smontato la perizia madre del gip Todisco secondo cui Ilva avvelenava Taranto e ammazzava i bambini, insieme a intercettazioni trascritte male. A nulla è servito il dibattimento ai fini delle richieste dei pm che, a detta di tutti collegi difensivi di tutti gli imputati, sono rimasti fermi alle indagini preliminari, come se a nulla fossero serviti questi 5 anni di udienze infinite senza sosta tre volte la settimana con uffici legali esclusivamente e totalmente dediti alla causa, con una complessità scientifica delle materie trattate difficile per i legali, figuriamoci per i giurati popolari. Dibattimento, anzi processo, che non è riuscito neppure a dimostrare, nonostante decine di ricerche epidemiologiche, studi di corte, registri tumori, e cartelle cliniche, che vi sia un nesso di causalità tra l’inquinamento ambientale di Ilva e le morti o malattie di Taranto.

Tranne l’amianto, che è dimostrato causa mesotelioma, malattia che a detta della Asl di Taranto produrrà eccesso di morti in provincia per i prossimi trent’anni, e che perlopiù è causato dall’arsenale e dalle navi in Mar Piccolo per cui continua ad essere ripetutamente condannata la Marina Militare. Ma mai in 60 anni è stato dimostrato un legame di causalità tra inquinamento Ilva e un decesso, e tutti abbiamo imparato in questa pandemia grazie ai vaccini quanto sia importante la differenza tra causalità e correlazione nel rapporto tra una sostanza e un effetto. Gian Domenico Caiazza, presidente delle Camere Penali che in questo processo difendeva il responsabile relazioni esterne commenta: “In prima fila, al centro dell’aula, solo un lungo e comodo banco per l’Accusa. Per la difesa nemmeno un simbolico strapuntino. Una foto perfetta, nitida e veritiera di questo processo, una vicenda interamente appaltata alla pubblica accusa, nella quale la difesa ha rappresentato solo un inevitabile intralcio”.

Secondo il pm invece “gli imputati erano animati da dolo intenzionale diretto all’evento del reato, che è il disastro; poi ci può essere anche un altro fine, quello di produrre acciaio, quello di produrre reddito, ma non influisce affatto sulla esistenza del dolo intenzionale, che era proprio quello del disastro”. Insomma secondo il pm i Riva volevano prima avvelenare, poi produrre. A nulla è servito che il dibattimento abbia dimostrato che i Riva hanno dimezzato le emissioni durante la loro gestione. Come pure che avessero da sempre investito molto sulle figure professionali dei tecnici e capi area coinvolti, che venivano mandati negli stabilimenti di tutto il mondo per acquisire le conoscenze di nuovi impianti e soprattutto addestrarli al loro all’ammodernamento. Gli avvocati dei dirigenti hanno evidenziato la tracciabilità di tutti gli stipendi, non vi sono stati arricchimenti per loro.

“Non sono per nulla abbattuto – ha detto Francesco Perli, il legale dei Riva difeso nel processo dal famoso avvocato Raffaele della Valle – “anzi – ha detto Perli- sono più determinato di prima a combattere per il prevalere della verità. Non ho concorso alla concussione di Assennato perché non ho partecipato ad alcuna riunione con Vendola in quanto nelle stesse ore ero in udienza avanti un giudice del Tribunale di Milano. Il procedimento Aia non è un procedimento segretato come ha sostenuto il pm Argentino ma un procedimento aperto cui partecipano tutti gli enti e le associazioni ambientaliste e nel quale le migliori tecniche da adottare sono proposte dall’operatore tra le Bat vigenti e la loro appropriatezza valutata dalla Commissione AIA. Per il resto io ho fatto soltanto l’Avvocato ed i giudici di Taranto i faccendieri devono andare a scovarli da altre parti, magari più vicino. Nel dispositivo mi hanno anche inibito di svolgere la professione di legale. Una cosa vergognosa. Pensavo che le due giudici togate fossero di ben altro livello e non appartenessero alla scuola di Vysinskij, Stucka e Pasukanis”.

Non ci va più leggero neppure Vendola: «Io mi ribello ad una giustizia che calpesta la verità. È come vivere in un mondo capovolto, dove chi ha operato per il bene di Taranto viene condannato senza l’ombra di una prova. Una mostruosità giuridica avallata da una giuria popolare colpisce noi, quelli che dai Riva non hanno preso mai un soldo, che hanno scoperchiato la fabbrica, che hanno imposto leggi all’avanguardia contro i veleni industriali. Appelleremo questa sentenza, anche perché essa rappresenta l’ennesima prova di una giustizia profondamente malata. Sappiano i giudici – continua l’ex presidente della Regione Puglia – che hanno commesso un grave delitto contro la verità e contro la storia. Hanno umiliato persone che hanno dedicato l’intera vita a battersi per la giustizia e la legalità. Hanno offerto a Taranto non dei colpevoli ma degli agnelli sacrificali: noi non fummo i complici dell’Ilva, fummo coloro che ruppero un lungo silenzio e una diffusa complicità con quella azienda. Ho taciuto per quasi 10 anni difendendomi solo nelle aule di giustizia, ora non starò più zitto. Io combatterò contro questa carneficina del diritto e della verità».

P.S. L’unica volta che la procura ha fermato l’accanimento giudiziario nei confonti di Ilva è stato quando l’allora procuratore capo Capristo patteggiò con i commissari di governo Ilva in amministrazione straordinaria, tramite il consulente Piero Amara. È una storia meno conosciuta, ma vera: Amara fu nominato dal commissario Laghi consulente di Ilva, e fu lui a intrattenere le riunioni con Capristo e il Pm Argentino per il patteggiamento di Ilva in amministrazione straordinaria (non Riva).

Oggi leggiamo nei chiacchierati verbali della fantomatica loggia Ungheria che secondo Amara il procuratore Capristo era stato nominato grazie a lui alla procura di Taranto. Di fatto Amara aveva spostato la residenza legale in provincia di Taranto e aveva assunto nel suo studio il figlio del procuratore Argentino. Quel patteggiamento però verrà rigettato dalla corte di appello perché ritenuto incongruo. Tolto quell’episodio l’accanimento giudiziario che quella fabbrica ha subito negli ultimi dieci anni ha trasformato i Riva in assassini, la fabbrica in morte, i giudici in eroi popolari, le loro frasi (“nessun bambino deve più morire per colpa di Ilva”) in striscioni nelle manifestazioni, e dopo le fiction con Sabrina Ferilli, le telecamere puntate sui fumi e la città di Taranto che attende di essere liberata attribuendo alla magistratura questa funzione salvifica, la sentenza ha dato al popolo la sentenza che aspettava. Ma per ora è solo un primo grado…