La decisione del Tribunale di Sorveglianza di Milano
Sentenza su Crespi è una pagina perfetta di diritto costituzionale
1. Bene ha fatto questo giornale (Il Riformista, 24 giugno) a mettere in giusta evidenza il provvedimento con cui il Tribunale di sorveglianza di Milano ha concesso al regista Ambrogio Crespi il provvisorio differimento dell’esecuzione della pena. E non solo perché si tratta di una vicenda giudiziaria quantomeno controversa. Crespi è stato condannato nel marzo scorso in via definitiva per il volatile reato di concorso esterno in scambio elettorale-politico mafioso. Da libero (perché scarcerato nel 2013 per assenza di esigenze cautelari), si è costituito spontaneamente in carcere per scontare una pena a 6 anni di detenzione, vissuta come iniqua sulla base di un’innocenza sempre rivendicata in giudizio.
I molti aspetti opachi dell’intera vicenda processuale (passata al setaccio nel libro di Marco Del Freo, Il caso Crespi), unitamente alla biografia del condannato che è l’antitesi del reato attribuitogli, hanno alimentato consapevoli e allarmate preoccupazioni. Per impulso di Nessuno Tocchi Caino – affidabile sensore nel riconoscere casi di malagiustizia – è nato un apposito comitato per «raccontare una storia diversa: quella della certezza del diritto, della speranza e della nonviolenza», facendo «parlare i fatti, le carte del processo, che si incaricheranno di gridare l’innocenza» di Crespi. Sul piano giuridico, l’azione del comitato mira alla grazia presidenziale o, in subordine, alla revisione del processo, anche attraverso il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. L’obiettivo finale è la rimozione di «una pena – che ai sensi della Costituzione dovrebbe essere volta alla riabilitazione – nei confronti di una persona come Ambrogio che ha riabilitato persone e non richiede di essere riabilitata», come ha scritto il Presidente del comitato, Andrea Nicolosi (Il Riformista, 26 marzo).
2. La decisione dei giudici milanesi va ben oltre il caso Crespi. Ha certo il merito di rimettere transitoriamente sui giusti binari un convoglio deragliato. Ma – per spessore argomentativo – assume il valore esemplare di un atto di giustizia, giusta perché costituzionalmente orientata. Il provvedimento si muove entro un perimetro preciso. C’è una domanda di grazia, presentata dalla moglie di Crespi. Il codice penale prevede, in questi casi, la possibilità di differire l’esecuzione della pena per non più di 6 mesi da quando la condanna è divenuta irrevocabile, a evitare l’inutile restrizione in carcere di un condannato che potrebbe beneficiare della clemenza presidenziale. Il tribunale di sorveglianza è chiamato, per questo, a formulare una prognosi sulla «non manifesta infondatezza» delle ragioni addotte a supporto della grazia, al fine di decidere sul differimento facoltativo della pena. Entro questi limiti di oggetto, il giudici milanesi scrivono una pagina da manuale di diritto penale costituzionale.
3. Ciò è vero, innanzitutto, per l’interpretazione dello scopo della pena che – costituzionalmente – deve tendere alla rieducazione del condannato. Originariamente equivocata (perché intesa quale emenda interiore). A lungo marginalizzata a vantaggio di altre funzioni della pena (dissuasione, prevenzione, difesa sociale). Poi circoscritta alla sola fase terminale della vicenda punitiva (cioè l’esecuzione penitenziaria). Oggi, grazie a una consolidata giurisprudenza costituzionale, il primato della pena quale trattamento risocializzante a struttura emancipante è assunto a «punto cardine» dell’intera vicenda punitiva, «da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue» (sent. n. 313/1990). Il suo espresso riconoscimento testuale fonda «il principio della non sacrificabilità della funzione rieducativa sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena» (sent. n. 149/2018): dunque, nemmeno la sua natura intrinsecamente retributiva può azzerarne lo scopo dichiarato in Costituzione.
Di ciò il tribunale di sorveglianza mostra piena consapevolezza. In linea con le osservazioni della difesa di Crespi, riconosce «già esaurita [la] finalità di risocializzazione e reinserimento sociale della pena rispetto al condannato». Lo attesta la sua vita successiva all’avvenuta scarcerazione nel 2013, caratterizzata da un impegno professionale e umano «profuso nella difesa della legalità e anche nella lotta alla criminalità, ivi compresa quella mafiosa». Ne è prova la sua produzione cinematografica, pluripremiata e riconosciuta quale efficace vettore educativo per le nuove generazioni. Tutto ciò – scrivono i giudici – «appare un elemento che può delinearsi come “eccezionale” nella valutazione del soggetto e delle ripercussioni di una pena detentiva applicata a distanza di molti anni, proprio per un reato riconducibile alla criminalità mafiosa».
L’uomo che dovrebbe scontare la sua pena è oramai l’opposto dell’uomo del reato. Non si tratta di un giudizio prognostico condotto con lo psicoscopio: il giudice non è un palombaro dell’anima. Semmai, è chiamato a capitalizzare fatti concludenti esteriori che attestano un avvenuto reinserimento sociale, secondo una corretta visione secolarizzata del finalismo penale, aliena da ogni forma di emenda morale o di conversione interiore.
4. Evitare l’incompatibilità tra la situazione specifica di un singolo condannato e i principi costituzionali di rieducazione e umanizzazione della pena: a questo serve la grazia. La sua titolarità presidenziale, il suo procedimento, i relativi meccanismi di controllo sono stati tracciati dalla Corte costituzionale – nella sent. n. 200/2006 – proprio a partire da questo vincolo di scopo. Come sostiene la difesa di Crespi, l’atto di clemenza è «mezzo di riparazione in senso equitativo e di rimedio alle possibili incoerenze del sistema» quando, dandosi applicazione a una condanna ritualmente disposta, la pena «si tradurrebbe in una illegittima duplicazione del percorso di riabilitazione e in un trattamento inumano e degradante».
Sono osservazioni che il Tribunale di sorveglianza condivide, ritenendole pertinenti al caso di Ambrogio Crespi: difficile è «conciliare il condannato per concorso esterno in associazione mafiosa di ieri […] con l’uomo di oggi»; comprensibile è «il conseguente disorientamento che anche pubblicamente ha generato la sua incarcerazione». E tutto ciò conferma la plausibilità della richiesta di clemenza individuale. Qui, interlocutore privilegiato del provvedimento è il Quirinale. Crespi resterà libero fino al 9 settembre 2021. Se entro quella data non interverrà la grazia presidenziale, dovrà rientrare in carcere a scontare una pena oramai priva della sua finalità costituzionalmente necessaria. In passato, le grazie si contavano a migliaia: è una bulimia clemenziale che la sent. n. 200/2006 ha censurato, in ragione della straordinarietà del potere presidenziale, da esercitarsi con misura. Ma la misura non è necessariamente quella del contagocce. Ad oggi, il Presidente Mattarella ne ha concesse solo 26: c’è dunque un ampio margine per l’esercizio di un potere di clemenza altrimenti quiescente e irrilevante. Il caso Crespi gliene offre l’opportunità.
5. La vicenda in esame, infine, chiama in causa anche il regime ostativo penitenziario: il reato per cui è stato condannato, infatti, è incluso nella blacklist dell’art. 4-bis, comma 1, ord. penit., e Crespi – professandosi innocente – non ha mai collaborato utilmente con la giustizia, benché secondo le autorità investigative potrebbe ancora fornire un supporto conoscitivo utile. Tecnicamente, ciò non preclude né pregiudica l’esito della domanda di grazia, né rileva ai fini del differimento della pena. E tuttavia il provvedimento del tribunale di sorveglianza di Milano contiene utili elementi di riflessione su come valutare il silenzio dell’imputato prima, del reo poi.
Nel caso specifico, si prefigura la ricorrenza dell’ipotesi di una collaborazione impossibile, per la non organicità di Crespi al sodalizio criminale e perché i comportamenti a lui addebitati sono stati interamente accertati. Più in generale, dalla sua condotta complessiva possono inferirsi «elementi positivi attestanti una intervenuta dissociazione dai contesti criminali al quale si ascrive il reato», tale da ritenere «l’insussistenza nell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata ed escludere la possibilità di un loro ripristino». L’osservazione del condannato durante il periodo di detenzione, unitamente a quanto riferito dalle Direzioni Antimafia, nazionale e distrettuale, e dalla Questura, ne confermano l’assenza di pericolosità sociale.
Anche qui il caso Crespi mostra tutta la sua esemplarità, confermando quanto la Corte costituzionale ripete – all’unisono con la Corte di Strasburgo – a un legislatore malato di ipoacusia: ci può essere ravvedimento senza collaborazione, e il silenzio non necessariamente è sempre omertoso. È quanto invece esclude a priori la presunzione assoluta che regge il regime ostativo. Così però il principio per cui nessuno può essere costretto ad accusarsi (nemo tenetur se detegere) non solo si capovolge nel suo opposto (carceratus tenetur alios detegere), «ma rischia di determinare autoincriminazioni, anche per fatti non ancora giudicati» (sent. n. 253/2019).
6. Grazie al provvedimento del tribunale di sorveglianza di Milano, impariamo così che è l’art. 27, comma 3, Cost. a imporre una individualizzazione della punizione finanche al punto di rinunciare alla sua esecuzione, laddove ne ricorrano le condizioni e l’ordinamento preveda istituti a ciò finalizzati (liberazione condizionale, il differimento della pena, la sua estinzione totale o parziale per grazia ricevuta).
È una lettura da suggerire ai troppi che, in nome di una fraintesa certezza della pena, invocano una reclusione fino all’ultimo giorno dentro una cella di cui andrebbe buttata via la chiave. Scoprirebbero così che la teologia della maledizione perenne, del «fine pena mai», del «devi marcire in galera», è straniera al disegno costituzionale dei delitti e delle pene.
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