Le prove mancate che hanno portato all’assoluzione
Serena Mollicone, perché la sentenza ha assolto i Mottola e gli altri imputati: i punti deboli dell’accusa

Il ‘day after’ la sentenza per l’omicidio di Serena Mollicone non si placano le polemiche per la decisione dei giudici della Corte d’Assise del tribunale di Cassino di assolvere tutti gli imputati, i coniugi Franco e Anna Maria Mottola, il figlio Marco (accusati di omicidio e occultamento di cadavere), il vicemaresciallo Vincenzo Quatrale (istigazione al suicidio) e dell’appuntato Francesco Suprano (favoreggiamento).
Una sentenza che ha provocato delusione nella famiglia Mollicone, portando diverse persone a spingersi troppo oltre, col barbaro tentativo di linciare la famiglia Mottola. Il maresciallo Franco e il figlio Marco sono stati insultati, inseguiti e minacciati, costretti a rifugiarsi in un bar protetti dalle forze dell’ordine.
Un clima teso, ma per la famiglia Mollicone quella di ieri non è giustizia. Parla di “sconfitta per lo Stato italiano, che ha nella giustizia una delle sue funzioni cardine”, l’avvocato Dario De Santis, legale del padre della vittima Guglielmo Mollicone, morto nel 2020 dopo due decenni spesi a combattere per trovare la verità sulla morte della figlia.
Quanto alle motivazioni, l’attesa è per l’autunno: i giudici della Corte d’Assise di Cassino si sono presi 90 giorni per il deposito degli atti. “Non commento la sentenza finché non leggerò le motivazioni, ma il dato che emerge oggettivo è che a 21 anni dai fatti non c’è ancora giustizia per Serena“, sottolinea l’avvocato. La morte del padre di Serena, Guglielmo, “gli ha risparmiato questa altra delusione. Ma non ci rassegneremo finché non ci sarà giustizia. Resta il turbamento perché a tanti anni dai tragici fatti lo Stato non è stato capace di fare giustizia“.
I perché dell’assoluzione
In attesa delle motivazioni, a fare un punto sulla sentenza di assoluzione è il Corriere della Sera, che ha ricostruito gli atti a processo e i perché delle assoluzioni della famiglia Mottola “per non aver commesso il fatto” e degli altri due imputati, “perché il fatto non sussiste”.
La prova regina mancante è certamente quella del Dna, che dovrebbe legare gli autori del delitto alla vittima. Sul corpo di Serena (la studentessa di Arce trovata cadavere 3 giugno del 2001, 48 ore dopo la sua scomparsa), sul nastro adesivo che la imbavagliava, sulla porta contro la quale, secondo l’accusa, sarebbe stato sbattuto il suo capo non ci sono tracce biologiche degli imputati. L’unica impronta è quella trovata sul nastro, mai attribuita però ai Mottola.
Altro punto chiave è quello dei frammenti di legno nei capelli di Serena, che per la consulenza di parte dell’accusa, affidata al Riso e alla dottoressa Cristina Cattaneo, erano compatibili per tipo di materiale con quelli della porta della caserma dei carabinieri dove Serena sarebbe stata uccisa, sbattuta contro la porta durante una colluttazione con Marco Mottola. Una contro perizia della difesa ha però smontato tale ipotesi, spingendo probabilmente i giudici a non considerare le indagini dell’accusa come una componente chiave.
Quindi la questione del movente. La stessa procura nella requisitoria ha sottolineato che “solo Serena potrebbe dircelo”. L’ipotesi più accreditata dei familiari e dell’accusa è quella sostenuta dal padre di Serena, Guglielmo, secondo il quale la figlia voleva denunciare Marco per la sua attività di spaccio, tanto da avere anche col maresciallo Mottola una discussione in piazza nei giorni precedenti. Nel corso del processo però la vicenda non è mai stata chiarita.
Infine il suicidio di Santino Tuzi, brigadiere morto suicida nel 2008 dopo aver rivelato, sette anni dopo la morte di Serena, di aver visto l’ingresso della ragazza in caserma il giorno del suo decesso. Una testimonianza però non verificabile: il suicidio di Tuzi è avvenuto prima di completare l’interrogatorio.
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