Parla il direttore di Limes
“Servirà trattare con i talebani, in Afghanistan gli Usa hanno sbagliato tutto”, parla Lucio Caracciolo
Afghanistan, una sconfitta annunciata, gestita nel peggior modo possibile. A sostenerlo è Lucio Caracciolo, direttore di Limes, la più autorevole rivista italiana di geopolitica.
Fuga, disfatta, tradimento. Le definizioni abbondano nel voler racchiudere gli eventi afghani in una parola. Qual è la sua ?
Una parola è troppo poco. Fondamentalmente, è una sconfitta annunciata che è stata gestita nel peggior modo possibile. Pensiamo solamente a quello che è stato, per esempio, il ritiro sovietico dall’Afghanistan: lasciò lì un governo, più o meno filorusso, per un paio d’anni. Diciamo che si poteva organizzare molto meglio il ritiro. Non è stato fatto e questo, a mio avviso, dipende innanzitutto da una crisi americana che poi si riflette anche nelle sue proiezioni esterne. Il punto fondamentale è che l’America sta vivendo una fase di crisi, culturale prima di tutto, che si riflette nella sua proiezione nel mondo. E’ evidente, lo dicevano gli stessi americani, che quella guerra ormai era diventata completamente inutile e controproducente. Averci messo vent’anni per capirlo e per uscirne in questo modo, la dice lunga su un abissale deficit politico, culturale, prim’ancora che militare. Tenendo peraltro conto che stiamo parlando di una uscita “non uscita”. La cosa che mi pare abbastanza paradossale è che tu dichiari il ritiro e mentre lo dichiari mandi 6mila marines. A Roma si direbbe: fate pace col cervello. Mandi 6mila marines perché non sai gestire il ritiro. E questo sul caso specifico. Poi è evidente che a questo punto dovremo comunque trovare dei compromessi con i Talebani perché ormai da lì non se ne vanno. Con i Talebani e con le altre potenze regionali. Tutta la discussione sul trattare sì, trattare no, mi pare perfettamente oziosa nel momento in cui, per esempio, gli Stati Uniti firmano un formale trattato con uno Stato che non riconoscono ma con cui, appunto, fanno un accordo che è quello per il ritiro. Tra l’altro arrogandosi il diritto di decidere per tutti i Paesi della Nato, come se ci avessero mai consultato.
Proprio su questo. L’Europa non conta ma trancia giudizi. In molti si sono esercitati nel “tiro a Biden”. Come la vede in proposito?
Biden, anche nella retorica, sia pure con uno stile completamente diverso, sta seguendo quello che aveva già deciso Trump, che era sicuramente anche nelle intenzioni di Obama e che è un po’ la visione geopolitica americana almeno dal 2007, cioè da quel famoso rapporto sull’Iraq con cui l’amministrazione Bush nel suo biennio finale liquidò le ultime velleità neoconservatrici di redimere il mondo e stabilì che gli americani dovevano, il più possibile rapidamente e dignitosamente, divincolarsi da queste guerre controproducenti in Medio Oriente. Quindi non mi fisserei su Biden, anche perché un presidente che fa tre discorsi in quattro giorni, è che si deve presentare davanti al pubblico finendo per registrare una costante perdita di consensi all’interno, parla da solo. Il punto è che l’America ha deciso di chiudere una stagione ma non sa bene quale riaprire.
A proposito di stagioni. Quella dei Talebani oggi è diversa da vent’anni fa?
Assolutamente sì. Non sappiamo ancora in che misura e in che modo, ma certamente i Taliban di oggi sono cambiati non fosse altro perché, fortunatamente, il potere corrompe. Una volta che assumi quelle responsabilità di governo, cominci a girare il mondo in alberghi a cinque stelle, a fare accordi con gli Stati Uniti, non puoi più essere quello che eri prima. Mi lasci aggiungere che forse un’analisi più approfondita di quello che sono stati i Taliban anche prima andrebbe fatta.
Perché?
Perché noi li abbiamo in qualche modo equiparati ad Al-Qaeda o ad altre formazioni che andavano a fare attentati in giro per il mondo, mentre i Taliban si sono unicamente e sempre preoccupati dell’Afghanistan, da cui avrebbero volentieri anche cacciato Al-Qaeda salvo che il mullah Omar si fece convincere da Bin Laden – dietro promessa che non avrebbero mai attaccato l’America – che si poteva restare lì. I Taliban sono diversi da come vengono dipinti, e stanno cambiando. La misura in cui questo cambiamento si verificherà è troppo presto per dire, ma in ogni caso sono una entità con cui dovremo trattare.
La guerra al terrorismo giustificò, vent’anni fa, l’azione militare americana, e non solo americana, in Afghanistan come risposta all’11 Settembre. Un discorso simile può essere fatto per Iraq e Siria con la guerra all’Isis. Guerra che Trump proclamò conclusa, vittoriosamente, al 100%, dopo l’eliminazione di al-Baghdadi. La guerra al terrorismo può giustificare tutto e tutto la giustifica?
No, e questo gli americani lo dicono non da oggi ma fin dai tempi di Obama che praticamente liquidò la retorica della guerra al terrorismo anche se poi, concretamente, sul terreno, gli americani hanno continuato a farla. Ma immaginare di vincere una guerra al terrorismo è una contraddizione in termini, perché, come è noto, il terrorismo non è un soggetto geopolitico ma è l’insieme delle modalità che vengono utilizzate, tra l’altro in alcuni casi anche dagli Stati, in caso di guerra. Anche se fu discutibile, si può capire, nell’autunno 2001, la necessità di una spedizione militare che desse il senso all’opinione pubblica americana che l’America, dopo le Torri Gemelle, non stava lì a subire. Dopodiché non è che ti vai a piazzare per vent’anni in un Paese ingovernabile, spendendo e spandendo una quantità mostruosa di risorse, con migliaia di morti tuoi e di Paesi alleati. Francamente un bilancio che più catastrofico è difficile immaginarlo, considerando cos’è l’Afghanistan, e cioè non un Paese esattamente centrale nella geopolitica internazionale.
Limes ha il merito di mantenere accesi i riflettori sul mondo anche quando il mondo esce, penso all’Italia, non solo dall’agenda politica e di governo ma anche dai media. Alla luce di questo sconfortante dato di fatto, non è indice di una decadenza intellettuale, la sorpresa del giorno dopo su ciò che si sta consumando in Afghanistan?
Si lo è e purtroppo ne siamo tutti partecipi e, più o meno, corresponsabili. Fatto è che almeno dalla fine del secolo scorso, cioè dalla fine della Guerra fredda e quindi della prima repubblica in Italia e con essa anche la fine di una classe dirigente italiana che aveva una voce e delle connessioni internazionali di primo livello, la nostra classe dirigente, non solo quella politica, non ha le chiavi di lettura di quello che sta accadendo intorno a noi. Il fatto che anche altri Paesi siano in condizioni poco migliori, a cominciare in questa fase purtroppo dal nostro capo cordata a stelle e strisce, può essere una magra consolazione, ma è chiaro che a questo punto noi abbiamo una responsabilità verso noi stessi, e cioè quella di capire quali sono i nostri interessi e difenderli, e tendenzialmente non mandare più in giro i nostri soldati a casaccio per il mondo ma concentrarci sulle aree che ci riguardano.
Una di queste aree è il Grande Medio Oriente: dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Libia alla Siria, passando per la dimenticata Palestina. C’è un luogo di questa nevralgica area del pianeta dove la politica dell’Occidente ha battuto un colpo vincente?
Non generalizzerei. Intanto il Grande Medio Oriente è una categoria che esiste per gli americani e non può esistere per noi o per altri Paesi europei, che non abbiamo risorse per gestirla e forse neanche per pensarla. Per quanto riguarda noi italiani, purtroppo in quel periodo che citavo prima, cioè dai primi anni ’90 fino ad oggi, noi abbiamo o trascurato o mal gestito – mi riferisco per esempio ai Balcani ma anche al Nord Africa, alla Libia e alla Tunisia – delle aree di nostro stretto interesse in modo assolutamente sciagurato e poco riflettuto, con i risultati che vediamo.
In particolare con la disintegrazione dei Balcani che non è stata ancora sanata, con l’insieme delle crisi in Nord Africa che hanno portato russi e turchi alla frontiera italiana, e allontanato gli americani, il Libano parla da solo…Non che noi si potesse fare molto di più ma almeno non farci del male come siamo soliti. Questo almeno potevamo evitarcelo.
Non è indice di un certo neocolonialismo culturale ritenere, ad esempio, che il tribalismo, per restare all’Afghanistan, sia qualcosa di medioevale, fuori dal tempo e dallo spazio?
Secondo me il discorso è un po’ più generale. C’è una crisi dei saperi, innanzitutto in ambito accademico ma un po’ in tutti gli altri ambiti di produzione del sapere, di cui il politicamente corretto è l’espressione più volgare e negativa, perché è una forma di negazione del pensiero libero. E poi anche una sorta di subappalto ai singoli esperti dei singoli problemi, riducendoli, sminuzzandoli in parti sempre più piccole e senza una capacità di vedere le interconnessioni, i legami, i vincoli, e questo modo di non vedere il mondo, di ridurre tutto a un tweet o a una rapida comunicazione ad effetto, inevitabilmente ci mette in condizioni di difficoltà quando si tratta di gestire le crisi. Questo è un problema che investe proprio gli assetti socioculturali delle nostre società, a partire da quella americana ma ovviamente anche della nostra.
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