Abbiamo capito questo, che i boomers da piccoli si annoiavano. Le belle estati di tre mesi al mare sul Tirreno in effetti erano piuttosto ripetitive, monotone, uguali, appunto noiose. E che erano preda di sensualità e relative paure adolescenziali che si incrociavano con il declino di una certa borghesia. Ce lo dice Sandro Veronesi in questo suo ultimo romanzo, Settembre nero (La Nave di Teseo) nel quale, a parte il doveroso plot che di solito coincide con una disgrazia, la ciccia è tutta spalmata nella noia di un benessere familiare che maschera un qualche disagio esistenziale dei ragazzini, gli attuali boomers.

Veronesi sforna l’ennesimo romanzo italiano sui bambini-adolescenti tra i Sessanta e i Settanta, momento particolarissimo nel quale la felicità del boom tracima nell’improvvisa crisi morale del paese e lo fa con la storia minimale del dodicenne Gigio Ballandi, figlio di un avvocato maniaco del mare, una bella madre irlandese che non fa nulla e una intelligentissima sorellina di sette anni. Gigio racconta la sua fantastica estate del 1972 su una spiaggia della Versilia e la sua passione per Astrid, tredici anni, con la quale finalmente si bacia “con la lingua”. Così piccoli, e a quei tempi, una roba così? Se lo racconta, può darsi. Ma boh…

Sullo sfondo, le Olimpiadi di Monaco (passate alla storia con l’attacco terrorista di “Settembre nero” che si salda con il settembre nero di Gigio) e i dischi di Cat Stevens, gli Oro Saiwa e le creme solari, la plastica e il nylon – queste ultime cose a formare quel particolare “odore del sole” che davvero si respirava sulle spiagge tirreniche in quei tempi là. Anni tutti di corsa. Punteggiati dall’uomo sulla luna, dai mangiadischi, da orrendi fatti di cronaca come il caso Lavorini, a Viareggio, forse il primo caso di un mega-shitstorm, diremmo oggi, su decine di persone che non c’entravano niente. Poi la storia avanza verso il suo bravo plot che non è il caso di raccontare e infine Gigio diventa grande e non c’è molto altro da aggiungere. Una storia semplice. Anche troppo.

Ora, leggere Sandro Veronesi è ogni volta come sistemarsi tra i cuscini di una carrozza con le migliori intenzioni, memori dei primi fantasiosi libri («Venite venite B-52» soprattutto) o di quelli più maturi (da “La forza del passato” a “Caos calmo” a “Colibrì”, ma anche “Xyz”); però qui il viaggio è come se fosse già stato fatto altre volte, procedendo senza scosse, nel bene e nel male, sempre tra i comodi cuscini della memoria, chiave letteraria che funziona. E l’autore è bravissimo, non c’è bisogno di dirlo, a restituire alla perfezione quel clima – ahinoi – di mezzo secolo fa, e l’intrigo della vicenda, nella sua esilità, prende il lettore. Ma cos’è questa stanchezza che non è solo nostalgia? Cos’è questa normalità al fondo un po’ colpevolizzante? Cosa c’è che non va? Non basta cavarsela con la solita litanìa che il tempo passa e più non tornerà, e probabilmente questo l’autore lo sa benissimo e infatti si ferma prima delle Grandi Risposte che non pretende di avere.

«Ho pensato che mettermi a nudo con un racconto veramente sincero e onesto e scrupoloso possa servire a farmi andare finalmente oltre quella domanda: ero in grado di cambiare il corso degli eventi?». L’arma del ricordo, per quanto affilata, non sa produrre una risposta. Ma, ecco, chiuso “Settembre nero” ne sappiamo quanto prima “sugli anni e sull’età”, come cantava Francesco Guccini. Resta il ribadimento, amaro e tenero, per noi boomers, che quegli anni furono belli e quell’odore del sole così pungente.