Shani, Ori, Yocheved, la guerra delle donne: storie che raccontano il protagonismo femminile

Quel mezzo sorriso che parla di gioia e dolore e allude a tanto altro è di Ori Megidish, 19 anni, la soldatessa israeliana liberata – forse fuggita – dopo 23 giorni nelle mani di Hamas. La forza della consapevolezza che può avere solo una donna di ottantacinque anni che ha già visto di tutto nella vita è di Yocheved Lifshitz, che mentre viene liberata stringe la mano a uno dei suoi aguzzini e per due volte ripete “shalom”, pace. I tre volti, due silenti e uno solo parlante, che nel video girato da Hamas gridano la loro rabbia contro il governo di Tel Aviv, “vogliamo tornare a casa, liberateci”, sono di Rimon, Daniel, Elena, 36, 44 e 50 anni. Ma c’è anche il bellissimo viso di Shani Louk, la ventitreenne tedesca, immigrata in Israele, mostrata come una bombola smontata su un maledetto camion di Hamas. E infine le 75 donne, contabilità in difetto, uccise a Teheran nell’ultimo anno dal regime degli ayatollah: una strage che ha i volti simbolo di Masha Amini, 22 anni, della sedicenne Armita Geravand, e delle migliaia di donne dello straordinario, coraggioso movimento che si chiama “Donna, vita, libertà”.

Sono storie di donne, giovani e anziane, storie individuali e collettive che raccontano di un nuovo protagonismo femminile dove non sono più solo vittime e facile merce di ricatto. Spesso provocano eventi epocali, come Masha e Armita in Iran. Protagoniste e non più comprimarie, anche a costo della vita, sono unite da un filo rosso che mette sotto accusa quella cultura islamica che umilia, maltratta e nega i diritti e l’individualità stessa della donna. Yocheved Lifshitz viveva nel kibbutz di Be’eri, il 7 ottobre epicentro della carneficina di Hamas. È stata liberata venti giorni dopo. Quando è stato il momento di andare incontro alla vita – due miliziani di Hamas alle spalle, gli uomini della Croce rossa a pochi metri – in quegli ultimi passi che devono sembrare pesantissimi e infiniti la signora di 85 anni ha guardato prima in avanti mentre l’uomo della Croce rossa diceva “come on, let’s go, it’s ok now”, poi, pur barcollante, si è voltata verso i terroristi con il cappuccio nero e la fascia verde in testa, ha fatto mezzo passo indietro e stringendo la mano a uno di loro ha ripetuto “Shalom, shalom”. Il video è diventato virale rilanciando e amplificando tutta la potenza politica di un piccolo gesto imprevisto che indica l’unica soluzione di tutto questo orrore, se solo per una volta le ragioni degli individui diventassero ragion di Stato e non sempre il contrario.

Ori Megidish prestava servizio nell’unità di sole donne incaricata di monitorare dalle videocamere di sicurezza gli spostamenti dei palestinesi lungo il confine con Gaza. Rapita il 7 mattina, è stata liberata pochi giorni fa dai colleghi dell’IDF (questa la versione ufficiale, e forse non sapremo mai la verità). Tornata a casa ha abbracciato la madre: “Sono qui, è finita”. Per i medici sta bene. E in un attimo e per un attimo è svanito l’incubo che alle donne soldato – tutte le ragazze in Israele fanno il servizio militare obbligatorio – fosse riservato un di più di umiliazione. Ori è libera, le immagini restituiscono uno sguardo perso e un sorriso pronto a rompersi nel pianto. Ora potrà, forse, raccontare, spiegare, aiutare, servire la sua patria. Una risorsa in più e non un handicap, alla faccia dei complottisti che hanno immaginato in queste ore messe in scena e invenzioni.

Che dire poi delle tre donne ostaggio che nel video consegnato da Hamas urlano (una di loro a nome di tutte) “vogliamo tornare a casa”? La propaganda di Hamas avrà loro messo in bocca cosa dire a uso e consumo della “causa”. Ma a contare è il modo in cui Daniel Aloni, rapita con la figlia di sei anni, urla la sua rabbia e indica qualcosa di urgente e drammatico a chi siede al tavolo della diplomazia. A cominciare da Bibi Netanyahu, che di trattare non vuole nemmeno parlare. L’invettiva di Daniel segna una svolta. Non sappiamo in quale direzione, ma è una svolta che parla al cuore e alle emozioni.

Il corpo di Shani Louk lo abbiamo visto per l’ultima volta su quel pick up dove gli uomini di Hamas urlavano come se avessero avuto uno scalpo. E non lo scorderemo mai. Ci consola pensare che forse è stata uccisa subito e quando l’abbiamo intravista, quasi un corpo di bambola rotta, non poteva più soffrire. In nome di Shani questa guerra può peggiorare. In nome di Ori può trovare una soluzione. Così come in nome di Masha e Armita l’Islam moderato, non solo femminile, può trovare il coraggio di dire basta alle guerre di religione, alle umiliazioni, ai soprusi, alle dittature. Per rivendicare, in una parola, il diritto alla libertà.