Lo schermo è nero, poi appare una scritta in caratteri latini e arabi, Sh’hili, Scirocco nella lingua araba, dissolvenza, e poi vediamo un grande ulivo secolare in Tunisia. Quell’olivo, aveva una funzione, quasi sacrale, forniva olio, 250 litri da un solo albero, al piccolo villaggio di Habib Ayeb, studioso, attivista, accademico, geografo sociale, autore di cultura franco-tunisina. È lui il regista del docufilm sui cambiamenti climatici nel Mediterraneo, lo ha girato tra Francia, Marocco, Tunisia, Italia e ovviamente Sicilia, continente di mezzo del Mare Nostrum. Anche perché la sua aiuto regista è una ricercatrice isolana, Costanza Pizzo, dotata di quella grazia dello sguardo che solo le siciliane possono avere. Detta cosi sembrerebbe tutto bello, ma nulla è quel che sembra, il film è un pugno nello stomaco, una denuncia in piena regola, che parte dal basso, non dai think thank occidentali, dai verdi ecologisti o da altri movimenti orientati.

Parte dalle interviste ai contadini, agli allevatori, ai pescatori dei laghi della Tunisia, o della laguna sul delta del Po. Gente che vive, oggi sopravvive, della terra e del mare. Sono tutti attoniti, stupiti, preoccupati, per quanto ancora non piegati. Ma fino a quando, quousque tandem abutere, potranno resistere al soffio incessante dello Scirocco. L’ulivo di Ayeb è ormai secco, nessuno a memoria d’uomo, anzi di donna, ce lo conferma una vecchia saggia contadina tunisina, aveva visto tanta siccità, aridità, ciclicamente ripetute. Lo vediamo nelle oasi del deserto tunisino che non producono più datteri, e nelle campagne siciliane dove i viticoltori lasciano sulla pianta l’uva per la riduzione al 30% della produzione, non vale la pena raccogliere, troppi costi.

Fa caldo ovunque, non solo in Sicilia, perfino a Bordeaux i viticoltori più ricchi pensano di cambiare i vitigni. Non soffrono solo i contadini ma anche le bestie, non c’è acqua né foraggio, se non a prezzi proibitivi. Le greggi vengono vendute per impossibilità di sostentarle, sia che sia nell’entroterra di Djerba che sulle Madonie siciliane. I pescatori raccolgono montagne di granchio blu, specie tropicale proveniente da oceani a sud, che dovrebbe fare preoccupare più degli immigrati dirottati in Albania. Dove arriva il granchio spariscono orate, anguille altri pesci che erano il pane della marineria dell’adriatico. Le facce sconcertate sono uguali, sia che siano del Sael che del comasco. Colpisce la similitudine soprattutto tra i contadini siciliani, le espressioni, la mimica, gli sguardi, e quelli tunisini. Viene in mente il film di Gabriele Salvatores, Mediterraneo, e la famosa frase “una faccia, una razza”. Il cambiamento climatico è una livella che però ha conseguenze e colpe differenti.

Non solo perché il nord industrializzato del mondo, oggi bilanciato dal colosso cinese, inquina enormemente più del sud del mondo, certamente più dell’Africa. Ma perché alcune dimensioni agricole del sud sono figlie del colonialismo. Abbiamo abituato i paesi frontalieri a coltivare cose che piacciono a noi europei, sostituendo metodi e produzioni locali, che erano comunque in grado di produrre delle economie di sostentamento familiare o di comunità. Ed ora sostituire le palme da dattero della varietà che piace ai francesi o agli italiani con le antiche produzioni locali diventa arduo e poco sostenibile. Il film ha un messaggio ideologico chiaro ed incontrovertibile, non lo dice l’autore ma un contadino di “manna”, il dolcificante estratto per colatura dal frassino, molto presente sulle Madonie siciliane. Dio ci diede la manna per sfamarci nel deserto del nostro errare, ma noi stiamo, perché nessuna Cop 21 o accordi di Kyoto hanno fermato nulla, ammazzando il vitello grasso, il nostro Pianeta. Questo ci dice Sh’hili, un film da proiettare in tutte le scuole italiane, se avessimo il “Merito” di capirlo.