Sei Punte
"Lo scambio di ostaggi"
Show di Hamas per il rilascio degli ostaggi: solo un’orgia di telecamere (by Al Jazeera) e kalashnikov per la saga video-terroristica
Risulta che la regia degli “eventi”, ovvero la copertura video-giornalistica della liberazione, sia stata affidata dai terroristi a un noto reporter di Al Jazeera, l’emittente finanziata dal Qatar
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La terza puntata della saga video-terroristica sul rilascio degli innocenti rapiti da Hamas – uno scempio che qualche sconsiderato ha avuto l’impudenza di definire “scambio di ostaggi” – andava in rassegna ieri in un’orgia di telecamere e kalashnikov che, se possibile, superava in oscenità la sceneggiatura che in modo già inguardabile faceva il successo dei precedenti episodi.
Fatti dismettere a Gaza i panni dell’afflizione da carestia e da genocidio, Hamas adunava il popolo palestinese intorno ai palchi del dissequestro e nell’assedio delle automobili della Croce Rossa, con una ragazza issata lassù e obbligata a sorridere, a salutare gioiosa e a rammostrare il kit dei souvenir del soggiorno mentre l’altra, terrorizzata, era costretta a sfilare tra due ali inferocite che la strattonavano e insultavano. Il trattamento riservato alle ragazze – Agam Berger e Arbel Yehud – era analogo a quello che allietava il rilascio di Gadi Moses, un ottantenne trascinato in mezzo alla folla che giusto per miracolo non è riuscita a linciarlo. Non casualmente, la calca era meno eccitata e l’apparato scenografico era meno sontuoso nel caso dei cinque ostaggi thailandesi pure liberati.
Si è già detto in abbondanza del carattere dimostrativo di queste rappresentazioni, del fatto che sono rivolte all’ultimo dileggio degli ostaggi e a ostentare la reviviscenza di Hamas nei giorni della “vittoria”, due manifestazioni detestabili quanto prevedibili della iattanza terroristica che non rinuncia a impettirsi e a far mostra di sé nel maltrattamento finale di quei poveracci. Ma si è dato poco peso al significato domestico di quel teatro, rivolto in realtà meno all’informazione e all’opinione pubblica del mondo che alla vera platea: vale a dire la popolazione di Gaza, materia passiva della rassicurazione, anzi della minaccia, che Hamas è ancora lì a imporre il proprio potere. Il potere che, vittorioso, si consente di liberare alcuni ostaggi mentre abbatte a fucilate palestinesi accusati di collaborazionismo sionista, o anche soltanto di qualche insubordinazione alla protervia di Hamas. E, ancora non casualmente, le immagini di queste altre prodezze – gente giustiziata per strada in un trionfo di invocazioni a dio – hanno avuto più tenue favore di stampa, se non nessuno.
Risulta peraltro – e non risulta che la notizia sia stata ufficialmente smentita – che la regia degli “eventi”, cioè la copertura video-giornalistica dei rilasci degli ostaggi, sia stata affidata da Hamas a un noto reporter di Al Jazeera, l’emittente finanziata dal Qatar (il Paese che, varrà la pena di ricordarlo, dichiarava che Israele era l’esclusivo responsabile dei fatti del 7 ottobre). Si potrebbe replicare che l’organizzazione criminale di turno ha il diritto di farsi servire giornalisticamente da chi preferisce, ma forse l’argomento non è dei migliori in bocca a quelli che si affidavano alle equanimi imparzialità e all’ineccepibile reputazione professionale di una testata che si rende disponibile a rendere quei servizi.
La realtà è che quelle scene, con gli allestimenti che le bardavano e con i trofei umani che le adornavano, costituivano la prosecuzione in pompa di un’opera comunicazionale che dura dall’inizio del conflitto, e che ha contaminato non poco la cronaca che si è preteso di farne. L’immagine di un Paese, Israele, descritto come l’insediamento colonialista che da un anno e mezzo a questa parte si impegna a portare a compimento la pulizia etnica del popolo palestinese, da un lato, e dall’altro lato l’immagine di una realtà, Gaza, impegnata a difendersi come può da quell’aggressione soverchiante, potrebbero essere riviste anche alla luce dei modi diversi con cui una parte e l’altra gestiscono questa fase degli accordi.
Ieri Israele liberava il terzo gruppo di detenuti palestinesi, dopo i primi due comprendenti una buona aliquota di criminali provetti. Lo faceva perché era il prezzo del riscatto imposto per la liberazione di pochi ostaggi, colpevoli solo di essere israeliani, e lo faceva senza la selvaggia rappresentazione invece organizzata dalle belve uscite dai tunnel. Ma c’è da credere che, presso i campioni del pregiudizio imperante, si tratti di differenze poco percepibili.
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