Come uscire dalla crisi
Siamo in guerra, per uscire dalla crisi bisogna riscoprire l’odiato Keynes
Il sistema – non il conflitto sociale, non i suoi critici – il sistema deve cambiare rotta subito e profondamente. La recessione che si annuncia può essere devastante non solo per i popoli, cosa per il sistema al fine non rilevante, ma per la stessa accumulazione capitalistica. Allora si cambia. Il deficit spending, che era stato sepolto con il keynesismo da una damnatio memoriae prodotta da tutti i vari liberismi – neo e ordo e altro ancora- viene ripescato almeno in alcuni suoi elementi di peso. Non so se si può parlare di un keynesismo di guerra.
Certo che quel che ieri era negato oggi viene affermato come una necessità urgente e vitale. La spesa pubblica viene chiamata alle armi, secondo il lessico adottato dai governanti impegnati a cambiare la loro divisa, e con essa viene riscoperto l’ancora più dannato intervento pubblico nell’economia. Vuoi vedere che tra un po’ arriviamo alla programmazione? Ricordate le discussioni sul reddito di cittadinanza e sul suo costo? Ora è da dentro il sistema che viene proposto di ricorrere all’helicopter money, cioè si propone disinvoltamente di dotare di una somma di denaro tutti i cittadini. Le compatibilità se non vengono abrogate, vengono almeno sospese.
Tutto bene allora? Non proprio, non basta infatti staccarsi dal passato e avviare la possibilità di fare debito. Bisogna poter immettere nel mercato e nelle strutture produttive risorse reali, ci vuole un piano di investimenti pubblici e deve essere un piano di investimenti a dimensione europea. Qui si incontra il primo banco di prova della profondità della rottura di questi giorni oppure della sua superficialità.
Si parla del Mes, il fondo salva-Stati, ma è un cavallo ruffiano. La partita infatti si gioca sulla messa in campo o no degli eurobond, sulla scelta cioè di mettere in comune da parte dei paesi dell’eurozona una componente significativa dei loro bilanci, realizzando un bilancio comune per la rinascita. Gli eurobond sono una via senza alternativa per un intervento di sistema sulla crisi indotta dal coronavirus.
Qui c’è un primo bivio, la verifica qui si fa stringente, è un vero e proprio aut-aut. Ma anche nella dimensione più strategica, quella che riguarda il futuro e il modello di società verso cui vogliamo andare, l’interrogativo è del tutto aperto pure dentro l’attuale crisi. Quel che è cominciato con la rottura del dogma della parità di bilancio e del suo armamentario (fiscal compact etc.) può essere l’avvio di un ripensamento oppure può essere l’approdo a una sorta di gattopardismo economico: cambiare qualcosa perché tutto resti come prima.
Quelle di oggi sono scelte importanti da non sottovalutare, ma esse possono, e allo stato è la cosa più probabile, essere ricondotte dentro un’ipotesi di ristrutturazione di questo stesso assetto dell’economia; possono essere cioè delle scelte capaci di tenere lontano ancora ogni ipotesi di cambiamento reale che investa, come dovrebbe, l’intero modello sociale, i rapporti sociali, il rapporto tra l’uomo e la natura, la vita della persona e l’organizzazione della comunità. Il virus, oltre a essere un dramma umano e sociale, funziona come una lente di ingrandimento dei problemi drammaticamente irrisolti della nostra società. La risposta dovrebbe condurre a questo ordine di questioni, cioè alla ricerca di un’alternativa di società. Ma dove sono le forze per provarci?
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