Siamo in guerra, per uscire dalla crisi bisogna riscoprire l’odiato Keynes

Nei tempi della guerra fredda, e di molto altro ancora, Giovannino Guareschi irrideva i suoi comunisti immaginari con il celebre “Contrordine compagni”, a cui prontamente quelli dovevano aderire. Nei tempi del coronavirus stiamo assistendo a un clamoroso contrordine impartito ai governanti che altrettanto prontamente aderiscono. Ma chi impartisce l’ordine? Niente di personale. Lo fa una entità tanto impersonale quanto concreta che sta sopra persino ai proclamati, o silenziosamente messi in atto, stati di necessità. L’unica entità che lo può fare un tempo si chiamava semplicemente: il sistema.

Ancora una volta bisogna riconoscere allo stesso sistema capitalistico generatore di crisi una grande capacità di reazione alla stessa, una grande capacità di mobilità, di dinamicità. Oggi quest’ultimo capitalismo conosciuto, il capitalismo finanziario globale, lo sta manifestando rispetto alla crisi generata da un potente e improvviso fattore esogeno: il coronavirus. Ovviamente non è la pandemia ad indurlo alla drastica correzione di rotta, bensì le sue pesanti e ancora non del tutto prevedibili conseguenze sull’economia mondiale e su quelle delle sue diverse aree politiche.
La tenaglia che, prodotta dall’emergenza sanitaria, sta stringendosi sull’economia è stritolante.

Da un lato, c’è la crisi della domanda causata dalla caduta generalizzata dei consumi, dall’altro lato c’è la strisciante crisi dell’offerta per un rallentamento fino al fermo di molte attività produttive, da noi guadagnato da un risorto protagonismo dei lavoratori che la lotta per la difesa della loro salute ha fatto uscire dall’invisibilità a cui erano condannati. Basti pensare che il nostro Paese è la seconda potenza manifatturiera d’Europa e contemporaneamente ha vissuto un’importante terziarizzazione con al centro il peso crescente del turismo per rendersi conto di quale sarà la forza distruttiva di quella tenaglia.

La tenaglia, del resto, è del tutto europea e diffusamente mondiale. Anche la crescita del Pil e dell’occupazione negli Usa, che erano il ferro di lancia di Trump, si spezzano improvvisamente e duramente. Un tempo si diceva che quando gli Usa hanno il raffreddore, l’Europa prende la polmonite. Non credo sia più così. Il welfare europeo, pure così malridotto dalle politiche di austerity, può ora fare la differenza. Le previsioni sono impressionanti.

Lo scenario che Goldman Sachs prevede per gli Usa è un calo del 24 per cento del Pil da aprile a giugno e solo in un pugno di giorni ci sarebbero 2 milioni di disoccupati in più. Secondo il suo segretario al Tesoro, il tasso di disoccupazione balzerebbe negli Usa dall’attuale 3,5% al 20%. Dunque, c’era poco da aspettare, ma la reazione non si è fatta attendere ed è stata drastica. La più immediata delle misure americane è lo stanziamento di assegni del tesoro per la maggioranza della popolazione di 2400 dollari a coppia più 500 per ogni figlio a carico. Qualcosa, come si vede, si muove.

Ora la manovra che gli Usa si apprestano a varare è di duemila miliardi di spesa pubblica, quasi il 10 per cento del Pil americano. Dunque, parecchio più di qualcosa.  In Europa l’ortodossia delle sue politiche economiche è messa di fatto radicalmente in discussione; saltano vincoli che si davano come invalicabili, si manifestano svolte improvvise, altrimenti inimmaginabili, in capi di governo e di istituzioni economiche decisive. Macron nel suo discorso alla nazione dice che il paese è in guerra e in guerra si dà un solo nemico, e annuncia il ritiro delle sue riforme presentate in parlamento, a partire – dice proprio così: a partire – da quella sulle pensioni.

Quella che aveva socialmente incendiato la Francia, dai gilet jaunes alla serie di scioperi generali, ora d’improvviso non c’è più. Quasi incredibile. Christine Lagarde prima prova a tener botta alla testa della Bce dicendo che non è nei suoi compiti presidiare gli spread, poi cambia rotta e mette a disposizione 750 miliardi per comperare titoli di stato sui mercati finanziari, ma anche titoli privati e perfino cambiali di aziende in difficoltà. Contemporaneamente annuncia che la Banca centrale si dispone a acquistare sui mercati secondari in termini potenzialmente illimitati. Il quantitative easing viene tarato sulle risposte da dare alla gravità della crisi.

Parallelamente si fa sentire la Commissione europea guidata dalla Von der Leyen. Chi l’aveva vista prima? Per un quarto di secolo la Commissione è stata il gendarme dell’Europa di Maastricht, quella reale fondata su un dogma così indiscutibile da affossare interi paesi e da risultare del tutto impermeabile anche al drammatico aggravarsi della crisi sociale in Europa e al generarsi di grandi differenze tra le condizioni di diversi paesi, in particolare tra quelli dell’area tedesca e i paesi mediterranei; differenze tanto profonde tanto da destabilizzare la stessa costruzione europea. La Von der Leyen annuncia l’adozione della escape clause che disattiva il patto di stabilità.

L’Europa reale si è allontanata dai suoi popoli per molte ragioni: ragioni politiche, culturali, ragioni di mancata condivisione di istanze fondamentali di uguaglianza e di solidarietà. Ma il suo presidio, la sua torre, è stata l’affermazione del dogma contro le ragioni sociali ed ecologiche, l’affermazione dell’assoluta centralità del debito.
Oltre alla drammatica vicenda greca, tutti i paesi ne sono stati vittime. Ricordiamo bene ad ogni legge di bilancio la surreale discussione, il surreale dibattito politico su qualche punto di decimale del livello di debito accettabile da cui sembrava dover dipendere l’intero rapporto tra il Paese e l’Europa.

Deficit e debito sono state le forche caudine che hanno permesso le sciagurate politiche di austerity, comprese quelle dei tagli alla sanità e alla scuola che oggi paghiamo così duramente. Nel dibattito accademico, nel dibattito sulle politiche economiche non si contavano più le voci critiche anche di tanti Nobel dell’economia, e ancora di più nello sviluppo della crisi. Niente di niente. Il dogma resisteva puntellato dalle pratiche dei governi dei paesi europei e della sua Commissione. Sembrava, il dogma, suscettibile solo di qualche timida correzione per evitare il peggio. Ora, d’un colpo, l’intera costruzione viene giù.

Il sistema – non il conflitto sociale, non i suoi critici – il sistema deve cambiare rotta subito e profondamente. La recessione che si annuncia può essere devastante non solo per i popoli, cosa per il sistema al fine non rilevante, ma per la stessa accumulazione capitalistica. Allora si cambia. Il deficit spending, che era stato sepolto con il keynesismo da una damnatio memoriae prodotta da tutti i vari liberismi – neo e ordo e altro ancora- viene ripescato almeno in alcuni suoi elementi di peso. Non so se si può parlare di un keynesismo di guerra.

Certo che quel che ieri era negato oggi viene affermato come una necessità urgente e vitale. La spesa pubblica viene chiamata alle armi, secondo il lessico adottato dai governanti impegnati a cambiare la loro divisa, e con essa viene riscoperto l’ancora più dannato intervento pubblico nell’economia. Vuoi vedere che tra un po’ arriviamo alla programmazione? Ricordate le discussioni sul reddito di cittadinanza e sul suo costo? Ora è da dentro il sistema che viene proposto di ricorrere all’helicopter money, cioè si propone disinvoltamente di dotare di una somma di denaro tutti i cittadini. Le compatibilità se non vengono abrogate, vengono almeno sospese.

Tutto bene allora? Non proprio, non basta infatti staccarsi dal passato e avviare la possibilità di fare debito. Bisogna poter immettere nel mercato e nelle strutture produttive risorse reali, ci vuole un piano di investimenti pubblici e deve essere un piano di investimenti a dimensione europea. Qui si incontra il primo banco di prova della profondità della rottura di questi giorni oppure della sua superficialità.

Si parla del Mes, il fondo salva-Stati, ma è un cavallo ruffiano. La partita infatti si gioca sulla messa in campo o no degli eurobond, sulla scelta cioè di mettere in comune da parte dei paesi dell’eurozona una componente significativa dei loro bilanci, realizzando un bilancio comune per la rinascita. Gli eurobond sono una via senza alternativa per un intervento di sistema sulla crisi indotta dal coronavirus.

Qui c’è un primo bivio, la verifica qui si fa stringente, è un vero e proprio aut-aut. Ma anche nella dimensione più strategica, quella che riguarda il futuro e il modello di società verso cui vogliamo andare, l’interrogativo è del tutto aperto pure dentro l’attuale crisi. Quel che è cominciato con la rottura del dogma della parità di bilancio e del suo armamentario (fiscal compact etc.) può essere l’avvio di un ripensamento oppure può essere l’approdo a una sorta di gattopardismo economico: cambiare qualcosa perché tutto resti come prima.

Quelle di oggi sono scelte importanti da non sottovalutare, ma esse possono, e allo stato è la cosa più probabile, essere ricondotte dentro un’ipotesi di ristrutturazione di questo stesso assetto dell’economia; possono essere cioè delle scelte capaci di tenere lontano ancora ogni ipotesi di cambiamento reale che investa, come dovrebbe, l’intero modello sociale, i rapporti sociali, il rapporto tra l’uomo e la natura, la vita della persona e l’organizzazione della comunità. Il virus, oltre a essere un dramma umano e sociale, funziona come una lente di ingrandimento dei problemi drammaticamente irrisolti della nostra società. La risposta dovrebbe condurre a questo ordine di questioni, cioè alla ricerca di un’alternativa di società. Ma dove sono le forze per provarci?