Se Silvia Romano fosse scesa dall’aereo facendosi il segno della croce si sarebbe risparmiata una buona quota di insulti. E tutti ci saremmo risparmiati le scempiaggini di quelli che contestano il riscatto perché è servito alla liberazione di una convertita. Però c’è qualcosa di storto anche nelle celebrazioni del ritorno, che non si limitano alla soddisfazione davanti a un caso di dissequestro di una connazionale. Ed è la retorica che pressoché sempre imbandiera la missione di questi incolpevoli volontari, che non meriterebbero di finire nell’album facilone e falso del Paese colpevolmente pasciuto che però si riscatta nelle scelte di vita della meglio gioventù che porta aiuto ai bambini africani.

Il problema è il Paese che accoglie il ritorno di questa ragazza, ma non sta solo nel grido discriminatorio che le rimprovera l’abbigliamento o la conversione: sta anche nell’ipocrisia miserabilista di un solidarismo altrimenti vacuo, quello decisamente maggioritario e trasversale che sotto Natale magari adotta a distanza il negretto inviando dieci euro, come si fa con i delfini e con i panda, e poi allarga le braccia se ci tocca rispedire i genitori del bambinello nei lager libici perché qui abbiamo già i nostri bei problemi.

Questo atteggiamento è assunto in modi formalmente diversi ma con effetti sostanzialmente identici a destra e a manca, e cioè una volta sotto la teoria che prima vengono gli italiani e un’altra volta sotto quella che altrimenti è a rischio la tenuta democratica della nazione: e a me pare che nei due casi i bambini africani vadano bene a patto che restino laggiù, essendo al più destinatari di una carità che non impegna nessuno, appunto, salva la dedizione particolare di quei volontari.

Opposto all’ingiustificabile tumulto razzista e sessista che ha salutato il rimpatrio di Silvia Romano c’era il solito girotondo delle vaghezze pretesco-progressiste per le quali la missione dei volontari è il rimedio in cui si assolvono le colpe dell’egoismo capitalista. E il ritorno maomettano della ragazza non è soltanto l’oltraggio che indigna “le destre”: è anche, nel quadro di una reazione meno urticante ma non meno pericolosa, la vendicativa e sotto sotto giustificata riaffermazione del mondo oppresso in faccia a quello che lo saccheggia, e che tramite il lavoro dei volontari dimostra però che dopotutto è anche buono. Queste diverse impostazioni si riuniscono tuttavia nell’indistinguibile concretezza di un Paese che offre porti chiusi, legislazioni discriminatorie e piantagioni schiaviste: cose che i cori di benvenuto democratico pretendono di emendare.