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Silvia Romano, il giallo della conversione all’Islam tra costrizione e libera scelta
“Sono felicissima, sto bene fisicamente e mentalmente. Sono stata forte. Grazie alle istituzioni, ora voglio stare con la mia famiglia”. Sono state queste le prime parole pronunciate dopo lo sbarco all’aeroporto di Ciampino di Sara Romano, la cooperante milanese liberata venerdì sera in Somalia, dopo essere stata prigioniera per 18 mesi a seguito del rapimento avvenuto il 20 novembre 2018 in Kenya, a Chakama, dove lavorava per la onlus Africa Milele per seguire un progetto di sostegno all’infanzia con i bambini di un orfanotrofio.
Tanta commozione e lunghi abbracci con la famiglia per Sara, che dopo oltre 500 giorni ha potuto finalmente incontrare papà Enzo, la mamma Francesca e la sorella. La volontaria 25enne è stata accolta anche dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte e dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio.
Silvia Romano è stata poi accompagnata in caserma per incontrare il pm di Roma Sergio Colaiocco che ha avviato un’indagine per rapimento a scopo di terrorismo. Ma il ritorno a casa di Silvia ha lasciato purtroppo uno strascico di polemiche che avremmo voluto evitare, in particolare sulla sua conversione all’Islam. Una tesi confermata da fonti somale e dell’intelligence, che legano il processo alla condizione psicologica vissuta durante la prigionia. Di scelta volontaria invece scrive Open, che riporta anche le presunte parole della cooperante: “E’ stata una mia libera scelta, – scrive Open riportando le parole della volontaria – non c’è stata nessuna costrizione da parte dei rapitori che mi hanno trattato sempre con umanità. Non è vero invece che sono stata costretta a sposarmi, non ho avuto costrizioni fisiche né violenze”.
Un tema che, assieme ai costi per la liberazione della ragazza o alla scelta di scendere dall’aereo vestita con un abito tradizionale somalo, ha letteralmente invaso i social network con commenti d’odio che rappresentano il peggio dell’Italia. Fa impressione leggere le parole di Alessandro Sallusti, direttore di Libero, che ha descritto l’arrivo di Sara “come vedere tornare un prigioniero dei campi di concentramento orgogliosamente vestito da nazista”.
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