Il vero miracolo italiano
Silvio Berlusconi e il Milan: la grande bellezza del calcio italiano
Genio e sfrontatezza: così il Cavaliere ha cambiato il calcio italiano ed europeo, rendendo il Milan una delle squadre più vincenti della storia

Non solo una squadra, ma un’idea. Non solo la vittoria ma la maniera in cui la si ottiene. Non solo il campo verde, ma la comunicazione. Silvio Berlusconi ha cambiato il calcio italiano e europeo con la stessa geniale sfrontatezza con la quale si è cimentato in tutte le sue attività imprenditoriali e con il medesimo spirito da frontman con cui ha affrontato ogni palcoscenico della vita. Here we are now, entertain us.
In molti ambiti, soprattutto in politica, la sua figura resta ovviamente divisiva. Inevitabile per l’uomo che ha aperto la strada al bipolarismo. Fedelissimi sostenitori e agguerriti detrattori. Anche quando parliamo di tv, al netto della genialità delle sue intuizioni, che nessuno può disconoscere e della capacità di rinnovare e ampliare l’offerta qualcuno potrà legittimamente preferire altri format e linguaggi. È la libertà del mercato (e del telecomando) che Berlusconi conosceva bene e che di fatto lo ha reso vincente.
Nel calcio, no. Qui la discussione non può proprio esistere, la visione strategica di Berlusconi e la bellezza di quel Milan sono talmente indiscutibili che anche chi è stato rivale di quella squadra non può non riconoscerne la grandezza. Questo è davvero un miracolo (italiano). Perché chiunque si occupi di pallone sa bene quanto sia materia delicatissima da maneggiare, quanto feroci siano le rivalità e quante antipatie si portino dietro quasi sempre le squadre molto vincenti.
Partiamo dai numeri, 29 trofei in 31 anni che ne fanno per distacco il presidente più titolato della storia del calcio. “Al secondo in classifica, Bernabeu, che ha vinto molto meno di me, hanno intitolato uno stadio” disse una volta in conferenza stampa e giù risate. Ma le coppe e i campionati non sono tutto nell’estetica berlusconiana. Quello che contava era soprattutto sedurre, divertire, dominare il giuoco (con la U), guadagnarsi non soltanto l’amore dei milanisti ma anche il rispetto degli avversari. Sacchi, una scommessa pescata in serie B, lo disse subito. “Mi chiese prima di tutto di giocar bene, le vittorie poi sarebbero arrivate”. Arrigo era un rivoluzionario. Berlusconi lo difese. Dopo la sconfitta con l’Espanyol invece di negargli il panettone lo confermò, gli prolungò il contratto annunciandolo ai giocatori con un discorso piuttosto sintetico, 25 secondi di durata.
La filosofia sacchiana era nuova e accattivante, in un certo senso addirittura marxista. Teorizzava infatti il predominio del sistema sul talento individuale. “In Italia si gioca un calcio difensivo e individualista mentre dobbiamo essere un’orchestra, bisogna essere ottimisti e attaccare”. Soprattutto occorreva lavorare sulla testa dei giocatori “che è molto più difficile da allenare rispetto ai piedi”.
Sacchi rovescia molti dei dogmi del nostro calcio, propone modelli diversi, insegna meccanismi talmente perfetti e sincronizzati da ricordare quelli dei mixer video delle tv locali berlusconiane che qualche anno prima, ogni giorno spingevano simultaneamente il tasto play della stessa puntata di “Dallas” in ogni angolo del Paese, stratagemma geniale e necessario ad offrire a tutto il pubblico un’alternativa alla Rai e ai pubblicitari la certezza di una rilevazione di ascolto veritiera.
Quel Milan diventa rapidamente un brand, per dirla con il gergo di Publitalia. Non voleva soltanto vincere Sanremo, ma pure il Premio della Critica e magari anche il Tenco. Non voleva solo batterti, ma convincerti e meritarsi il tuo applauso, come a Napoli in quel giorno di primavera del 1988 quando un pubblico meraviglioso dopo aver tifato per 90 minuti Diego riconobbe la superiorità rossonera e accettò la sconfitta. Anche gli altri rivali sono stati sempre avversari, mai nemici. Con Massimo Moratti c’erano background e visioni politiche diverse ma stima personale, il comune amore per Milano e un legame familiare, quasi sentimentale, con i rispettivi club. Con la Juve il rapporto era di concorrenza leale e sincero fair play. Nel 1990 Galliani aveva in mano Roberto Baggio ma una telefonata dell’Avvocato convinse Silvio a lasciarlo andare a Torino.
Berlusconi pensava in grande, volava alto, come il suo elicottero che tutti i sabati anche negli anni d’oro di Capello e Ancelotti atterrava a Milanello e dopo aver parlato con squadra e staff si fermava sul divano bianco con i giornalisti, anche i più giovani. Aveva il gusto dello spariglio, intuì la disintermediazione secoli prima dei social. Ebbe l’intuizione dei quartieri ecologici molto prima dell’emergenza drammatica dei nostri tempi. Era talmente tanto larger than life che hanno pensato che il teaser Fozza Itaia sui 6×3 di Milano fosse roba sua. Parlava con tutti, li faceva sentire importanti. Invitava a cena gli investitori pubblicitari per visionare in diretta la messa in onda del loro primo spot televisivo e dava consigli come fosse un copywriter di Saatchi o Leo Burnett. Telefonava ai manager di Publitalia ricordando l’equilibrio tra lavoro, ambizione e bella vita e a loro brillavano gli occhi. Era un venditore, certo. E non sembri riduttivo, anche perché le cose che ha venduto per quasi quarant’anni agli italiani sono da sempre le più difficili da commerciare. Le emozioni.
Nel calcio ha cambiato le regole, stimolato un nuovo mercato dei diritti televisivi, stravolto il sistema, vinto finché ha potuto. Quando qualche anno fa capì che un’azienda familiare per quanto maestosa non potesse più competere con i “club-stato”, come Psg e Manchester City, scelse un altro approccio. La restituzione verso la sua Brianza, l’avventura con Galliani al fianco, a pochi passi da Villa San Martino.
Infine, il racconto. Lo sport in tv. Dal Mundialito fino alla Pay. Quello che da fuori si fa fatica a capire è il livello di attenzione che aveva per qualsiasi dettaglio. I racconti dei colleghi che hanno vissuto i suoi primi anni, quelli in cui in cui era tutti i giorni in giro nei corridoi sono bellissimi. La telefonata di complimenti a Sandro Piccinini “ma non sottolineare le assenze delle squadre nei primi istanti della telecronaca perché rischi di mandar via il pubblico” o la montatura di occhiali fatta cambiare a Guido Meda, perché “quelli in metallo non stanno bene col tuo viso giovane e magro”. Berlusconi ricordava continuamente ai suoi giornalisti la cravatta perché “entrate nelle case degli italiani”, e non amava come è noto la barba. Dopo lo speciale Mondiale di “Tiki Taka” mi concesse un compromesso: due millimetri e mezzo perché gli avevo raccontato che quello era un omaggio a mio padre. E allora disse di sì. Se avesse giocato a pallone e non fosse stato solo un presidente, anzi il Presidente, sarebbe stato sicuramente un fantasista, un numero 10. Era uno che dormiva pochissimo, che sognava molto e che, piaccia o no, tifosi e avversari, ci ha cambiato. Tutti.
© Riproduzione riservata