Dovremmo essere noi italiani, avendo alle spalle sia catastrofi impressionanti che soluzioni costruttive, gli insegnanti di prevenzione
Sisma in Marocco: cosa può insegnare la Storia (e l’Italia)
La catastrofe più imprevedibile, subdola e distruttiva. Alle 23 e 11 di venerdì scorso, con uno spietato colpo di magnitudo 6.8 sulla scala Richter partito dalle fagli a 11 km di profondità, in 30 secondi ha ridotto villaggi in un inferno di polvere e macerie.

Da quattro giorni e quattro notti i sopravvissuti sull’Atlante scavano a mani nude su ciò che resta di case fatte perlopiù di mattoni e argilla asciugata al sole. Il terremoto, la catastrofe più imprevedibile, subdola e distruttiva, alle 23 e 11 di venerdì scorso, con uno spietato colpo di magnitudo 6.8 sulla scala Richter partito dalle faglie a 11 km di profondità, in 30 secondi ha ridotto in un inferno di polvere e macerie villaggi e paesini adagiati sulle montagne del Grande Atlante del Marocco meridionale e sventrato i vicoli della medina di Marrakech, città dal fascino imperiale un tempo fortezza a guardia dei deserti. Degli oltre 2mila morti finora estratti dalle macerie, con migliaia di feriti di cui 1.500 in condizioni critiche, il 90 per cento sono nell’epicentro sui monti di Al Haouz tra Taroudant e Moay Brahim, dove ancora manca tutto, dall’acqua al cibo ai soccorsi organizzati con offerte da tutto il mondo alle quali però re Mohammed IV ha chiuso le porte in faccia, anche dall’Italia, aprendole solo per Spagna, Gran Bretagna, Qatar e Emirati Arabi.
Come in ogni sisma, le case si sono sbriciolate per la povertà delle costruzioni, come nella scossa di magnitudo 5,7 che abbatté Agadir nel 1960 lasciando 15mila morti, o nella carneficina di magnitudo 7,8 che tra Turchia e Siria il 6 e il 20 febbraio 2022 distrusse 353mila edifici con 59.200 morti e 5 milioni di sfollati. Ma cosa deve insegnare all’Italia l’ultimo massacro sismico, simile per potenza alla magnitudo 6.9 che alle 19.34 di domenica 23 novembre del 1980, all’ora dello struscio, uccise 2.734 persone tra l’Irpinia e la Basilicata sotto i crolli in 688 comuni, metà dei quali completamente distrutti?
Diciamo subito che dovremmo essere noi italiani, avendo alle spalle sia catastrofi impressionanti che soluzioni costruttive più potenti del sisma, gli insegnanti di prevenzione. La nostra lunga storia di popolo di terremotati risale molto indietro nel tempo. Sarà un caso, ma il primo indizio della nostra sismicità è nel più antico nome di una parte della penisola che 1500 anni prima di Cristo chiamavano “Enotria”. Indicava la vasta area dalla Campania meridionale alla Calabria occupata allora dai colonizzatori greci, ed è probabile derivi dall’ebraico antico “terra tremante”.
Il terrore dello scuotimento trovò poi il termine greco seismós, scossa. Ma ai Romani dobbiamo l’aggettivo tellurica in omaggio alla dea della terra Tellus, e la locuzione Terrae Motus. Da Lucrezio a Ovidio, da Polibio a Cicerone, da Virgilio a Tito Livio, da Vitruvio a Seneca a Plinio, tutti hanno divulgato osservazioni e raccomandazioni. Le prime regole base per rafforzare gli edifici sono nel De Architectura di Vitruvio, seconda meta del I secolo a.C., e Plinio classificava le migliori tecniche costruttive portando ad esempio le fondamenta poggianti su strati di carbone e pelli come isolamento sismico, suggerendo molto concretamente anche “la fuga, quando vi è tempo”, e durante la scossa di ripararsi sotto gli architravi dei muri portanti o un robusto tavolo. Avevano già capito tutto, e la resistenza dell’edilizia romana lo dimostra ad abundantiam. Ci sarà un perché se per oltre due millenni i Mercati di Traiano o il Colosseo e un complesso di opere dell’antichità è arrivato a noi sostanzialmente intatto sul piano strutturale? I loro basamenti ridicolizzano tanto costruito recente e indecente. Gli scienziati che li studiano restano impressionati dall’incredibile resistenza del calcestruzzo dell’antica Roma, superiore a quella di molti cementi odierni. Era un mix di calce, pozzolana miscelata con ceneri vulcaniche e limo dei Campi Flegrei, in cui inserivano frammenti di tufo, mattoni e cocci per formare il cementizio più resistente alle sollecitazioni meccaniche.
E che dire del genio di Leonardo che da “maestro di arte fortificatoria” studiò modi per ridurre l’impatto dei terremoti con “strutture scatolari compatte” e travi “incatenate che tengono i muri ben fermi”? Ma l’exploit dell’antisismica mondiale arrivò con l’architetto napoletano Pirro Ligorio che, da antiquario di corte alla corte degli Estensi, dopo aver visto la morte con gli occhi nel terremoto che nella notte il 16 e il 17 novembre del 1570 colpì Ferrara facendo oltre 2.000 morti, la rese prima città al mondo ricostruita con tecniche antisismiche, non a caso riprese da Vitruvio. Ligorio trasformò la catastrofe che descrisse come “tanta rovina che pareva che ’l cielo cadesse et la terra insieme mancasse” nel progetto della nuova città ricostruita per non crollare. L’incoscienza sismica, purtroppo, è riemersa anche sulle terre emiliane dove il 20 maggio del 2012 la scossa di 5.9 di magnitudo buttò giù anche i capannoni industriali non a regola d’arte e furono estratti 17 morti e 300 feriti con 15.000 sfollati per tante distruzioni e poi l’ottima ricostruzione con criteri antisismici molto rigorosi.
Il nostro sisma epocale del 1908 poteva essere il terremoto-spartiacque. Fu tra i più distruttivi del mondo e sbriciolò alle 5.20 del 28 dicembre 1908 con magnitudo 7.2 il costruito tra Sicilia orientale e Calabria meridionale. L’ecatombe in 37 secondi fece contare oltre 120mila morti da Messina a Reggio alle città e ai paesini tra Scilla e Cariddi, e l’”inferno in terra” spinse il sismologo Giuseppe Mercalli ad aggiungere altri due gradi alla sua già impressionante scala macrosismica, portandola al dodicesimo. Fu crudele con gli scampati ai crolli di Messina, molti dei quali arsi vivi dalle vampate di fuoco per il gas che si sprigionava dalle tubature squarciate, e risucchiati nei gorghi di quattro colossali ondate di tsunami che si abbatterono sulle coste alte dai 6 ai 12 metri dove si erano ammassati in cerca della più naturale salvezza.
Lo Stato monarchico, infatti, recuperò le prime norme antisismiche del mondo emanate da Napoli da Ferdinando IV di Borbone dopo i due più devastanti terremoti del Sud – in Sicilia il 9 e 11 gennaio 1693 e in Calabria il 5 febbraio 1783 – con almeno 60mila morti per evento sismico. I Borbone fecero del nostro Sud il primo laboratorio mondiale di pianificazione urbanistica con regole per l’edilizia sicura nelle “città nuove”. Inventarono allora le “case baraccate” resistenti al sisma, ordinarono “accorgimenti antisismici” per rafforzare le case in tutto il Regno delle due Sicilie, e il Regio decreto del 18 aprile 1909 n.193 le riprese varando le “Norme tecniche obbligatorie” e obbligando ogni nuova abitazione italiana ad avere “una ossatura in legno, di ferro, di cemento armato o di muratura armata, muratura squadrata e listata, telai, cordoli, sbalzi, strutture non spingenti”. Vietarono l’edificabilità “in siti inadatti come terreni paludosi, franosi o molto acclivi”. Limitarono le altezze a 10 metri, esclusero sopra-elevazioni, imposero strade larghe minimo 10 metri. Risultato? Tra Calabria e Sicilia nell’anno 2023 la gran parte degli edifici sono stati tirati su alla meglio e tanti sono abusivi e non in grado di resistere neanche alla forza di un sisma non importante. Basterebbe ricordare il terremoto del Belice con le case abbattute da una scossa da 6,1 magnitudo con 231 morti il 15 gennaio del 1968, o il 26 dicembre del 2018 quando le scosse etnee buttarono giù case e chiese in 6 paesi con magnitudo 5.
La drammatica ciclicità dei terremoti italiani è nei database della Protezione Civile e dell’Istituto Nazionale di Geologia e Vulcanologia. Dal Medioevo ad oggi sono stati rasi al suolo oltre 4.800 centri abitati, molti più volte e ricostruiti “dove erano e come erano” e cioè fragili e sulle stesse faglie più rischiose. Dall’Unità d’Italia, anno 1861, abbiamo subìto 36 grandi terremoti, uno ogni 4,5 anni con 170 terremoti minori che nei soli ultimi 30 anni hanno colpito 1.760 aree urbane, dimostrando sempre la facilità delle devastazioni. Oggi, delle 14.515.795 costruzioni sul territorio nazionale con 31 milioni di abitazioni, il 40% è in aree sismiche a rischio più elevato. Oltre metà risalgono a prima del 1974, cioè quando si edificava anche senza regole e spesso nemmeno piani regolatori. Tra 4 e 5 milioni di costruzioni sono a rischio lesioni o crolli parziali o di collasso. Il Sud presenta il carico edilizio peggiore con lo stock più scadente condonato da 4 sanatorie edilizie (1985, 1994 e 2003, più il 2018 nel furbesco decreto per Ischia). Con queste premesse è evidente che la nostra edilizia crolla anche a magnitudo più basse come il 3.9 di Ischia che il 21 agosto 2017 lasciò 2 morti e 42 feriti sotto le case crollate come burro.
Cosa servirebbe? Campagne di diagnostica degli edifici, investimenti pubblico-privati per la cantieristica anche leggera con tecnologie e nanotecnologie non invasive per un programma diffuso di adeguamento sismico. Ma c’è chi ha preferito le “facciate” alle fondamenta, bonus e superbonus al sismabonus. Tanta politica si nasconde dietro il falso alibi dei soldi che mancano. Un clamoroso falso economico. L’investimento complessivo necessario per mettere nella massima sicurezza l’edilizia italiana più a rischio da una scossa di magnitudo come L’Aquila 2009, cioè 6.3, vale circa 100 miliardi di euro, come calcola il Consiglio nazionale degli ingegneri e come calcolava nel 2017 la struttura di missione Casa Italia di Palazzo Chigi. Basta citare la cifra per rinviare. Nel frattempo, però, le sole ricostruzioni dei soli ultimi 3 grandi terremoti dei soli ultimi 14 anni stanno costando allo Stato oltre la metà di quella cifra ritenuta impossibile: ben 53 miliardi di euro tra L’Aquila 2009 con 17.4 miliardi, l’Emilia 2012 con 13, il Centro Italia 2016-17 con 23,5. E in più, in media ogni anno dal dopoguerra lo Stato spende 4,5 miliardi di euro per riparare i danni dai terremoti.
La nostra lunga storia catastrofica non aspetta i nostri tempi di reazione. Anche in queste c’è l’allerta per il preoccupante sciame sismico nei Campi Flegrei dove, in caso di eruzione, sono da evacuare 1,3 milioni di residenti con autobus e navi. Ci vuole poco a capire che gli assassini non sono i fenomeni naturali, piuttosto il modo spregiudicato in cui non li fronteggiamo. Non è paradossale che il Paese che ha inventato l’ingegneria e l’architettura antisismica sia il più in ritardo nella loro applicazione, e che le nostre aziende e i nostri tecnici sono contesi e ingaggiati in Giappone, California, Turchia, Iran e Nuova Zelanda dove il formidabile Made in Italy crea sicurezza, ma molto meno in Italia?
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