Il parere
Social e Fake news, perché le piattaforme non limitano la presenza di contenuti attrattivi ma disinformanti
Nel “Si&No” del Riformista spazia all’ultimatum del commissario europeo al mercato interno Thierry Breton ad Elon Musk, proprietario di X (Twitter), per limitare la diffusione di contenuti considerati fake news dopo l’attacco di Hamas in Israele. Giusta la richiesta? Favorevole Emanuele Cristelli, consulente relazioni pubbliche e istituzionali, secondo cui “il problema non è solo legale ma soprattutto politico ed etico”. Contrario invece Domenico Giordano, spin doctor per l’agenzia di comunicazione Arcadia, che osserva: “La disinformazione non può essere gestita con la reprimenda pubblica“.
Qui il commento di Domenico Giordano:
Il commissario europeo al Mercato interno Thierry Breton pensa di poter affrontare efficacemente il tema della disinformazione, che è materia tanto magmatica quanto trasversale e mutevole, utilizzando un approccio che potremmo definire medioevale, scegliendo di rifugiarsi in una visione nostalgica e fordista. A seguito degli attacchi terroristici di Hamas, che sabato scorso ha colpito diversi obiettivi civili nella Striscia di Gaza e alla controffensiva militare israeliana, negli Stati Uniti sono stati pubblicati una serie di articoli in cui venivano evidenziate la difficoltà della piattaforma X nel limitare la diffusione di post e contenuti apertamente falsi e fuorvianti.
Così il commissario Breton senza alcun indugio ha preso carta e penna per scrivere direttamente a Elon Musk precisando che “X viene utilizzato per diffondere contenuti illegali e disinformazione nell’Unione Europea”, pertanto “la esorto a garantire una risposta tempestiva, precisa e completa a questa richiesta entro le prossime 24 ore”.
Adesso, a parte il termine perentorio delle 24 ore che già di per sé ci restituisce la velleità o, se preferite, l’ingenuità della richiesta spedita a Market Square, dove ha sede a San Francisco il quartier generale di quello che fino a qualche mese chiamavano Twitter, ciò non significa affatto che l’argomento non sia di stringente attualità o che non abbia importanti ricadute sul dibattito pubblico digitale. Di più, a prescindere dai tragici eventi che in questi giorni hanno sconvolto l’equilibrio delle relazioni in medio-oriente, sul tavolo c’è il tema più generale degli impegni che le Big Tech stanno gradatamente assumendo per adeguarsi alla cornice normativa del Digital Services Act e del Digital Market Act.
Il tema della tutela degli utenti dalle distorsioni dilaganti della disinformazione online non può essere gestito con l’arma spuntata della reprimenda pubblica, di un aut aut temporale entro il quale il presunto colpevole esposto al pubblico ludibrio è chiamato a scagionarsi dalle responsabilità. La sortita del commissario Breton è sembrata essere motivata più dall’esigenza di ritagliarsi uno spazio di visibilità piuttosto che salvaguardare l’info-sfera da uno tsunami di fake news, anche perché le norme stringenti del DSA contemplano chiaramente le fattispecie sanzionatorie.
Inoltre, c’è anche un secondo aspetto di questa vicenda sul quale è opportuno una riflessione che investe l’ontologia delle piattaforme che aiuta a comprendere la matrice propagandistica dell’uscita del commissario Breton.
Pensare di portare sotto una certa soglia la disinformazione, sia quella organica, cioè generata inconsapevolmente dai follower in modo genuino, sia quella mercatale, quindi creata ad arte con un obiettivo specifico, a voler far muovere le auto a scoppio riempiendo il serbatoio con l’acqua. Provo a spiegarmi, fuor di metafora.
L’algoritmo svolge appieno la sua funzione unicamente quanto riesce a dilatare il nostro tempo di permanenza in rete, che significa anche rilascio di maggior informazioni contenute nelle interazioni. Il tempo in più speso online genera quella che oggi è chiamata profilazione algoritmica, che a sua volta si alimenta e distribuisce con maggior viralità proprio quei contenuti che allungano la nostra permanenza sulle piattaforme. Quindi maggior è il tempo speso online, tanto maggiori saranno le informazioni personali che concediamo gratuitamente alle piattaforme che potranno monetizzare. Ecco perché, pur in presenza di una regolamentazione come il Digital Act, varato dall’Unione Europea, le piattaforme avranno interesse a non limitare oltre una una certa soglia la presenza di contenuti attrattivi ma disinformanti. Considerato che l’uomo vive di progresso e che non è mai tornato indietro, come scrive Paolo Benanti “se vogliamo dare alla macchina un certo grado indipendenza rispetto a un controllore umano, si apre la questione di come conciliare valori numerici con valori etici”. C’è oggi la necessità di stabilire confini normativi e regolatori, ma altresì c’è l’esigenza di una nuova algoretica, una “sorta di guardrail etico, che tiene la macchina all’interno di una strada e, per quanto possibile, evita alcuni eventi infausti”.
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