L'intervento
Soldi a Fca? Iniziamo ad abbassare le tasse…

La recessione economica collegata all’epidemia sta mettendo in serio rischio tutti gli asset strategici del nostro Paese, questo è evidente. È tempo di un’autentica svolta, quella di riscrivere il rapporto tra Stato ed economia di mercato, introducendo una logica di relazione che, accanto al consueto sostegno tecnologico all’impresa, guardi anche alle sue dinamiche economiche e finanziarie, ormai sempre più globalizzate. Nei giorni scorsi abbiamo assistito ad un dibattito addirittura surreale sul finanziamento chiesto da Fca. La questione non può essere banalizzata attorno al fatto se la richiesta di un prestito alle banche garantito dallo Stato sia legittima o meno, a prescindere dal fatto che in questo caso l’intervento è vincolato al rispetto di piani di investimento e occupazionali.
Il tema è che il groviglio di norme e regole, l’ammasso di burocrazia, il pantano nella gestione delle finanze pubbliche, l’assenza di politiche lungimiranti in tema di costo del lavoro e di carico fiscale, hanno dirottato il gruppo Fca verso l’Olanda, la cui normativa si muove invece nella direzione di assecondare le necessità di un’impresa moderna e globale. Secondo il Fondo monetario, l’effetto della concorrenza fiscale causa stabilmente all’Italia una perdita annua di almeno 8 mld di dollari. Il risultato è che il Mise è permanentemente assediato da oltre 160 crisi industriali irrisolte e per le quali non sono state individuate soluzioni concrete e sostenibili che possano garantire almeno sicurezza ai lavoratori coinvolti e serenità alle loro famiglie. E allora come si può pensare di procedere ad una ricostruzione seria del Paese se a questa lista, già abbastanza lunga, rischiano di aggiungersene di nuove?
Di Maio, abbandonando la guida del Mise e trasferendosi alla Farnesina, ha pensato di sottrarsi alle sue responsabilità facendo ricadere i fallimenti di una politica industriale inesistente sul collega grillino Patuanelli, che alla prova dei fatti, si sta dimostrando altrettanto inadeguato. Insomma, lo sport preferito nel nostro Paese resta quello di buttare la palla in tribuna, specie in vista di appuntamenti elettorali importanti. Un modo per fare “ammuina”, dentro la quale nascondersi, non certo per risolvere i problemi. Sul tappeto ora c’è la questione Whirlpool per cui sorprendentemente però non c’è stata la stessa levata di scudi come invece è giustamente accaduto per Fca. Fino a 3 anni fa, con ben sei stabilimenti in Italia – un quarto della forza europea di Whirlpool e fiore al suo occhiello come espressione del made in Italy – era concentrata nel nostro Paese.
L’industria del bianco, che nel 2002 produceva 30 mln di pezzi, ora è scesa a meno di 10. Un crollo drammatico tamponato con i soliti cerotti: cassa integrazione, esuberi incentivati e chiusure di stabilimenti, ovviamente al Sud e stavolta Napoli. Non ci vuole molto a capire che la miriade di investimenti pubblici, nazionali e regionali, vanno sostituiti con una politica economica unitaria che drasticamente abbatta il totem del fisco e quello del paradosso degli stipendi lordi più alti cui corrispondono i netti più bassi. I soldi sono pochi? La burocrazia italiana costa, inutilmente, 55 miliardi ogni anno. Partiamo da lì.
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