“Presidente Sensi, abbiamo il regazzino, non serve buttare i soldi per Litmanen”.
“Amedè, te quante partite e quanti gol hai fatto in serie A? 350 e 4 gol? Ecco allora vojo proprio sapé ndo c.. vai torna subito in difesa”.
Provate a chiedere a un tifoso della Roma (no meglio, chiedete a un tifoso qualunque) di cosa stiamo parlando e non ci sarà nessuno che non vi risponda subito “beh, vabbè, è Carlo Mazzone”.

Un nome e un cognome di quelli talmente rappresentativi di un’epoca sportiva che oggi, ricordandolo nel momento della sua scomparsa, tocca quasi fare uno sforzo “emotivo” per reimmergersi nell’atmosfera di un calcio nostalgico, romantico, autentico, di cui Mazzone fu uno degli indiscussi protagonisti.

Erano gli anni delle “Romette”, infarcite di onesti giocatori e prive di talenti veri. Era una “Rometta” quella che nel 1994 rifilò tre gol alla Lazio di Zeman in un memorabile derby (trasmesso peraltro in chiaro sulla Rai) che proprio perché in qualche modo sovvertì tutti i pronostici della vigilia resta lì, indelebile, come uno dei più belli che ogni romanista ricordi. Balbo Cappioli Fonseca di fatto è diventato una sorta di scioglilingua tramandato nel tempo e che, non a caso, reca la firma di un personaggio come Mazzone che nei tre anni di Roma portò la squadra due volte al quinto posto e una al settimo e quindi, uno direbbe, perché?

Perché a quest’uomo tutti noi romanisti abbiamo voluto cosi bene? Ok, quel derby. Sì, certamente il fatto di essere stato lui lo scopritore dell’immenso talento del giocatore più forte della nostra storia potrebbe anche questa essere un’ottima ragione. Ma non basta a spiegare perché a quest’uomo, come ha ben ricordato Antonio Conte, è riuscito il capolavoro di essere amato da tutti indistintamente, anche dagli avversari. Lo hanno amato persino i tifosi dell’Atalanta, sotto la cui curva, ai tempi di Brescia, Carletto sfogò la tensione accumulata per gli insulti all’indirizzo della genitrice e al suo essere romano liberando tutta la sua stazza in una corsa sfrenata, coi collaboratori che cercavano invano di trattenerlo, e lanciando i più coloriti improperi della tradizione nostrana che nemmeno Alberto Sordi e Tomas Milian e Carlo Verdone e Mario Brega tutti insieme avrebbero pronunciato tanto bene.

Fateci caso, il repertorio di parolacce della lingua del Belli e di Trilussa nella bocca di Carlo Mazzone non ha mai fatto rima con un giudizio di pura volgarità. In quel mondo quasi antico in cui Mazzone si è formato ed è cresciuto, tra le piazze di Trastevere, la sua veracità, i suoi modi spicci e sanguigni, la severità del formatore di talenti purissimi come lo sono stati Totti e Pirlo, la tigna nel voler rilanciare campioni affermati, come Signori e soprattutto Baggio, mi appaiono tutti dei tratti quasi consustanziali alla romanità nella sua versione migliore.

E mi sembrano queste sì, delle ottime ragioni tra le altre, per cui noi romanisti lo abbiamo amato così visceralmente, perché, al di là dei gusti personali o del giudizio sull’allenatore, Carlo Mazzone era uno di noi, un pezzo di noi, il testimonial perfetto nell’ideale rincorsa al dogma dell’essere romano e romanista che poi ha trovato in Claudio Ranieri, Francesco Totti, Daniele De Rossi – in ordine sparso – le incarnazioni segnatamente più importanti. E tuttavia pensare di ridurre il ricordo di Mazzone indugiando unicamente sul piano umano rischia di mettere in ombra, invece, le altre ragioni per cui dobbiamo celebrarlo. Dobbiamo farlo perché è stato certamente un padre per Totti, certamente un maestro per il maestro della panchina Pep Guardiola o per quello in mezzo al campo Andrea Pirlo.

Ma Mazzone è stato soprattutto un grande allenatore, come per la Roma e quindi per Roma, così con l’Ascoli dei record e quindi per Ascoli, dove adesso riposa. È stato Lecce, Bologna, Brescia. Conte, Signori, Baggio. Ha riconosciuto e valorizzato il talento, lo ha trattato mettendovi a servizio la squadra e mai il contrario, nella convinzione della eterna superiorità della tecnica, il pane dei ricchi, sulla tattica, quello dei poveri, come amava sempre ripetere. Non so se, parafrasando quello che gli diceva suo padre, Carletto abbia “imparato a morì”. Di sicuro a noi, tifosi e appassionati, qualcosa su come si possa vivere lo sport e quindi la vita, con passione entusiasmo e verità, da persona meravigliosa qual’era io credo proprio ce l’abbia insegnato.

Roberto Giachetti

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