Ken Loach ci mette di fronte a un film raro, implacabile; un film che, incredibilmente, non ti chiama solo alla sua visione come fanno tutti, ma a intraprendere con lui un’esperienza di vita reale. Si potrebbe dire che siamo di fronte a un oltrepassamento dell’orizzonte stesso di tutti i realismi del cinema.
Lo sguardo qui non è sulla realtà ma nella realtà, dentro la realtà; esso si colloca all’interno di ciò che accade. Così quel che vivono i protagonisti ti si appiccica addosso e non c’è verso di prenderne le distanze. Tu sei costretto a vivere con loro la loro esperienza di sofferenza, di dolore e di deprivazione. Non c’è un protagonista, tutti loro lo sono in egual misura e insieme. Una famiglia operaia, si sarebbe detto un tempo, senza che lo si possa più dire ora perché persino questa possibilità di essere definita socialmente le viene ora sottratta. La storia, dura e drammatica è una di quelle tante che attraversano tanta parte delle popolazioni lavorative di questo nostro tempo, il tempo di quel turbo capitalismo che divora i lavori, il tempo e la vita.
Il film è Sorry we missed you. Racconta di Ricky e Abby, una coppia sposata, legata da un amore affettuoso e solidale. Hanno due figli, Sebastian, di 16 anni, e Liza, di 11 anni. Stanno bene insieme e hanno cura uno dell’altro, reciprocamente. La storia sociale che li investe è una storia ordinaria perché comune oggi a tante e tante altre situazioni in ogni parte d’Europa; è una storia straordinaria perché umanamente intollerabile per quanto sia diffusa, intollerabile perché distruttrice di umanità, perché devastante. Ricky perde il lavoro quando si accingevano ad accendere un mutuo per comprare casa. Non si può più fare, ma senza lavoro non si può fare alcunché. Un nuovo lavoro non lo si può più trovare sul tradizionale mercato del lavoro invaso dalla disoccupazione, lo si può solo acquistare.
Per acquistare il furgone necessario al trasporto della merce vendono l’auto di Abby che la usava per i suoi spostamenti di lavoro cioè per raggiungere le persone bisognose delle sue cure di assistente sociale. Continuerà a svolgerle con la stessa amorevole e partecipe attenzione, ma con un pesante aggravamento della sua fatica e con una sofferta sottrazione del tempo dedicato ai figli. Con il furgone Ricky diventa corriere di una grossa ditta di consegne a domicilio. Ken Loach vede le persone, la vita ma, attraverso esse, legge la società e vede al suo interno affermarsi una macchina infernale. È quella che domina, che ti succhia ogni energia, che ti rende schiavo dei suoi tempi e delle sue esigenze, che ti stritola. Il film indaga questa organizzazione del lavoro che ti dichiara autonomo e ti costringe al massimo della dipendenza, fino all’ultimo-respiro.
Il taylorismo, contro cui esplose la contestazione operaia del 1969, pretendeva, con il controllo dei tempi e metodi di lavoro, la dipendenza dell’intervento operaio e realizzava il suo scientifico sfruttamento. Sembrava se ne dovesse uscire. Il film ci mostra come nella logistica, nella consegna a domicilio si sia passati dalla padella nella brace. Dietro lo schermo del lavoro autonomo si cela, in realtà, una condizione di totale dipendenza, di asservimento.
La macchina lo dichiara lavoro autonomo per liberarsi dei vincoli sociali e contrattuali conquistati dalle lotte industriali e lo riduce a una nuova forma di schiavitù. La saturazione dei tempi di lavoro industriali era illustrata dalla compressione anche dei bisogni fisiologici, mangiare, bere, pisciare. La saturazione dei tempi di consegna delle merci imposta a Ricky fa strame di ogni diritto. La condizione ci viene proposta dall’immagine di una bottiglia che Ricky dovrà usare e portarsela sempre appresso per non perdere tempo andando in bagno. È l’equivalente della chiave inglese di Chaplin in Tempi moderni. qui non c’è solo lo sfruttamento, c’è l’espropriazione, c’è la spoliazione.
Sebastian è un adolescente inquieto, i suoi genitori continuano ad essere affettuosi, ma sono preoccupati e il lavoro li porta, li costringe più lontani. Quando si mette nei guai, l’impossibile equilibrio familiare esplode. Le meravigliose donne, madre e figlia, provano in tutti i modi a rimettere a posto le scardinate tessere del mosaico. Ma sul furgone e su Ricky precipita il sempre possibile disastro. Ricky viene aggredito e derubato di tutta la merce da consegnare, malmenato e ferito. All’azienda tutto ciò non importa, esula dallo schema la cui unica guida è il massimo profitto. Perciò le va restituito l’ammontare del valore della merce e quando, per le ferite o per una qualsiasi anche estrema esigenza, è costretto ad assentarsi dal lavoro, non solo non sarà per nulla retribuito (la malattia non è contemplata) ma dovrà pagare una pesante penalità. Si affaccia la soglia della disperazione, la famiglia ricomposta vi resiste col suo deposito di amore e di condivisione del comune destino, ma non si sa se potrà farcela contro “la macchina”.
Quando Ricky, gravemente ferito riprende, contro tutto, la guida del furgone, Abby, Sebastian e Liza non riescono a trattenerlo, stretti l’uno all’altra. Nel patto dell’esistenza, non si sa se potranno sottrarre Ricky alla crudeltà del rapporto di lavoro, di un rapporto di lavoro disumanizzante che non riconosce la vita umana. È la logica spietata della macchina, niente di personale. Anche il capo azienda, nell’imporre il suo terribile disciplinare, nell’esercitare il suo ruolo di “frusta”, non esprime un carattere, il carattere della perfida cattiveria, solo è un ingranaggio della macchina che pretende il massimo profitto. La disumanizzazione è la cifra della macchina. Il film trascende la storia, oltre la rappresentazione della realtà esso ne strappa dei lembi drammatici e, con essi nella realtà ti immerge.
È un film di verità e di vita. Senza indicare vie di fuga, implacabile nel corpo a corpo con “la macchina”, Ken Loach non ci offre sortite consolatorie. Viene solo in mente l’antico “la verità è rivoluzionaria” e che bisogna sapersi sottoporre, anche al cinema, alla sofferenza, per continuare a cercarla.