Soul, il film d’animazione Pixar Disney diretto dal geniale Pete Docter, ora solo su streaming a causa del covid, è un vibrante omaggio al jazz, una favoletta New Age a tratti un po’ confusa, un apologo “filosoficamente corretto”, pur destando qualche interrogativo.
Protagonista il pianista nero Joe Gardner, insegnante un po’ frustrato di musica nella scuola media, che ha l’occasione di suonare nel miglior locale jazz di New York con la sua musicista prediletta, Dorothea. Fa il provino, lo supera – le scene con la musica sono di assoluta maestria (naturalmente i vari strumenti, e cioè piano, sax, trombone, etc., vengono suonati e “diteggiati” in modo tecnicamente irreprensibile) – poi esce in strada fuori di sé per l’entusiasmo, evita per poco di essere investito ma non si avvede di un tombino, ci piomba dentro e muore. L’anima si distacca dal corpo e finisce in una anticamera dell’altro mondo, insieme a tanti altri spiritelli (palline saltellanti che che somigliano alle particelle di sodio della pubblicità di una nostra acqua minerale dal nome mitologico).
Lì il racconto si impasticcia un po’, tra Oltremondo (Great Beyond), Antemondo, la Bolla, etc.. Basti dire che le nuove anime devono acquistare una personalità (trovare la loro “scintilla”) prima di andare sulla Terra, perciò si affidano a un mentore, così Joe – sfuggito per ora al suo destino – diventa il mentore di un’anima intrattabile, bisbetica (si chiama 22) che non vuole proprio incarnarsi perché la vita non la attrae. Tornano insieme sulla Terra, benché dentro corpi sbagliati, comunque alla fine Joe riesce, fortunosamente, a rientrare per un giorno nel proprio corpo, fa la sua esibizione nel jazz club, ma pur essendo la realizzazione del suo sogno non ne risulta appagato. Infine l’anima perduta 22 ritrova grazie a Joe il suo amore per la vita, e anzi per le piccole cose quotidiane, per i piaceri minuscoli, come mangiare un trancio di pizza o una ciambella per strada, chiacchierare col barbiere, ascoltare una canzone, restare incantati di fronte a una mattinata luminosa mentre cadono le foglie dagli alberi. L’happy end è ovviamente garantito, ma non lo sveliamo.
Dal punto di vista tecnico-formale Soul supera le opere precedenti della Pixar, pur non raggiungendo la straordinaria ispirazione di Coco. Gli animatori hanno seguito le indicazioni di musicisti veri per quanto riguarda gli strumenti, hanno riprodotto le strade dense di colori della metropoli e l’atmosfera eterea del mondo ultraterreno con una visionarietà attenta al dettaglio realistico, in particolare hanno lavorato con perfezione virtuosistica sulla pelle nera del protagonista e sui riflessi cangianti della luce su di essa. Assai felice l’invenzione di Sportivento, un artista di strada che appartiene ala associazione dei “Mistici senza frontiere”. I debiti cinematografici sono molti: 2001 Odissea nello spazio, Yellow submarine, un po’ del Malick metafisico, di Ghost e di Cocoon… Anche se l’insieme risulta un po’ freddino e a volte perfino un po’ noioso. Resta però l’aspetto, cui accennavo, di atto di amore verso il jazz (nella prima sceneggiatura il protagonista era uno scienziato). Ci torno tra poco.
Il “messaggio” del film è per me ineccepibile. In poche parole: il significato della vita non consiste tanto nei suoi momenti culminanti, nella realizzazione dei nostri sogni, nel successo, e neanche in una passione dispotica capace di divorarci. No, quello che alla fine capisce Joe – nel suo personale suo romanzo di formazione – è che la famosa “scintilla” di cui hanno bisogno le anime perse per incarnarsi, coincide con la vita stessa, con il suo fluire quotidiano, con il dio delle piccole cose: la vita è tutta qui, adesso, nella fogliolina che si raccoglie dentro la nostra mano, nell’attimo presente, come sanno i maestri taoisti, lo stoico Orazio, Goethe e Claudo Baglioni. Solo che non ce ne accorgiamo. Dorothea racconta a Joe la storiella dei due pesci: il pesce giovane chiede dove sia “quello che tutti chiamano oceano”, il vecchio risponde “ci stai nuotando dentro”, e il giovane, insoddisfatto, replica “ok questa è l’acqua, ma io cerco l’oceano”. Che poi è lo sviluppo di una storiella di David Forster Wallace. Solo due considerazioni. La prima ipermoralistica. Va bene, la morale del film – e cioè che la vita vale in se stessa, senza che debba essere riempita da qualcosa – è una morale semplice e al tempo stesso eversiva. Confligge con tutti messaggi della nostra epoca, con la ricerca ansiosa del quarto d’ora di celebrità, con la smania di apparire e di sfondare, con i talent show, etc. È però singolare che a ricordarci i momenti di trascurabile felicità, il minimalismo della gioia di vivere, i piaceri effimeri alla portata di tutti, sono quasi sempre persone che invece hanno successo, denaro, fama, potere (il film è costato 150 milioni di dollari)! E poi: quella stessa morale è già illustrata alla perfezione dalla metafora della musica jazz, e forse non aveva bisogno di essere esplicitata, rischiando un po’ di retorica. Il jazz infatti è l’unico genere musicale fondato sulla improvvisazione, dunque instabile, controintuitivo nei suoi sviluppi e interamente performativo: si svolge tutto al presente, aderisce quasi febbrilmente al presente, con i rischi del caso.