Il regista rilegge il musical più premiato di sempre
Spielberg e il suo West Side Story: “Più amore contro il razzismo”
C’è una ragione per cui i fan e i cinefili accaniti si riferiscono a Steven Spielberg con un familiarissimo “zio”. Rappresenta quel parente che nella marea di regole che compongono la vita di ogni giorno, ti ricorda che c’è sempre spazio per sognare, mondi e futuri diversi. Poco più che decenne lo immaginiamo entrare in possesso della colonna sonora di West Side Story e sembra quasi di vederlo imparare a memoria i versi del brano della gioventù disagiata Gee, Officer Krupke per poi cantarlo a cena davanti a dei genitori increduli. Lo racconta lui stesso a una platea virtuale di stampa mondiale per presentare l’uscita, il 23 dicembre, della sua tanto desiderata versione di West Side Story, con Ansel Elgort (Tony) e Rachel Zegler (Maria), a 60 anni dal film tratto dal musical.
«West Side Story ha un significato importantissimo per tantissime persone e sono emozionato di poterlo riportare nuovamente in vita e condividerlo con un nuovo pubblico – dichiara nelle note di regia – la cosa più bella di questa storia è che, indipendentemente dai cambiamenti che avvengono nel mondo, ci offre lezioni universali. È una storia che cattura il pubblico da decenni, perché non è semplicemente una storia d’amore, ma anche un lavoro culturalmente significativo con una premessa centrale (ossia che l’amore può sconfiggere il pregiudizio e l’intolleranza) che non ha perso significato nel corso del tempo». Interpretato da Natalie Wood e diretto da Jerome Robbins e Robert Wise, West Side Story del 1961 è passato alla storia per aver vinto ben 10 Oscar, tra i più famosi quello alla strabiliante performance di Rita Moreno nei panni di Anita. Per l’attrice portoricana, instancabile novantenne seduta accanto a Spielberg, il regista ha scritto una parte che le permettesse di passare il testimone: «Mi piace questa immagine del passaggio. Non è stato facile perché non posso certo dire di non essere stata invidiosa, sarebbe una bugia – ammette Moreno – avrei voluto tornare ad essere giovane e interpretare nuovamente io la parte di Anita ma è così che va la vita e Steven Spielberg ha scritto per me un bellissimo ruolo. Amo ogni singola scena. La parte in cui il mio personaggio, Valentina, è in scena con Anita (Ariana DeBose) è stata strana e la più difficile per me perché non riuscivo a concentrarmi».
Perché West Side story è stato una pietra miliare e valeva la pena rifarlo e omaggiarlo con questo film? «Prendere un capolavoro e rivisitarlo da un’altra prospettiva e con un’altra sensibilità, senza compromettere l’integrità di quella che è generalmente considerata la più grande partitura musicale mai scritta per il teatro, era piuttosto spaventoso – confessa Spielberg – Ma sono convinto che le grandi storie debbano essere raccontate all’infinito, in parte anche per rispecchiare prospettive e periodi storici differenti». Era la prima volta che la questione del pregiudizio razziale, della diversità che porta allo scontro veniva alla luce e colpiva nel segno. Lo sottolinea Spielberg insieme allo sceneggiatore Tony Kushner: «Io credo fermamente e ho fatto molte ricerche, che sia il musical del ‘57 che il film del ‘61 hanno rappresentato dei grandi passi in avanti in termini di rappresentazione. Non sono certo perfetti ma nessuno potrà mai contraddirmi quando dico che vedere l’Anita di Rita Moreno sullo schermo ha fatto riflettere il pubblico sui pregiudizi nella società del tempo e ancora oggi», conclude saggiamente il regista. Dietro il successo di West Side Story e di brani indimenticabili come Tonight, Maria o I feel pretty c’è il genio da paroliere e drammaturgo di Stephen Sondheim, scomparso lo scorso 26 novembre.
A lui va il ricordo di Spielberg: «È stato il primo ad essere coinvolto nel progetto e la prima persona che ho incontrato quando ho deciso di acquisire i diritti per realizzare la nostra versione di West Side Story – rivela – ci eravamo già incontrati perché la mia compagnia aveva realizzato Sweeney Todd con Johnny Depp e poi ci siamo rivisti alla Casa Bianca quando entrambi abbiamo ricevuto la medaglia presidenziale della libertà (Presidential Medal of Freedom). Avevo questa voglia disperata di realizzare il film ma non riuscivo a confessarglielo. Quando ho trovato finalmente il coraggio, ha dato il suo massimo contributo nella parte musicale e vocale con gli artisti. È stato un onore lavorare con lui». Steven Spielberg ha sempre dato voce al bambino dentro di lui e dentro ognuno dei suoi spettatori. Gira voce che West Side Story lo abbia coinvolto tanto quanto il suo meraviglioso E.T. Che il decenne in lui si sia abbandonato a canti e balli sul set insieme al cast? «Mi sono in effetti messo a ballare e cantare (stonando) con il cast ma solo durante le prove. Quando ho realizzato E.T non ero ancora papà e mi sono sentito un padre per tutti quei ragazzi e questa con West Side story è stata la seconda volta in cui mi sono sentito di far parte di una famiglia e di non esserne il centro».
Serietà alla regia anche per un sognatore dunque, soprattutto quando sotto la maschera del musical e della tragedia shakespeariana si nasconde un’analisi delle contraddizioni della società americana multietnica ancora presenti oggi: «Credo che ogni scena del film abbia un ruolo essenziale da giocare, è come un pilastro di un palazzo – spiega Spielberg a conclusione dell’incontro – la storia celebra l’essere vivi e porta avanti il messaggio del tentare il dialogo e l’incontro prima di ogni altra tragica soluzione».
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