Il quadro
Stage, internship e alta tassazione, l’Italia fa iniziare a lavorare tardi i giovani: l’effetto sulle pensioni è disastroso, ma la politica fa melina
Un italiano dedica in media 32,9 anni della propria vita al lavoro. È quanto fa sapere Eurostat che certifica come, nel nostro Paese, si lavori meno che nel resto d’Europa. La media europea, infatti, è pari a 36,9 anni: peggio di noi solo la Romania con un valore pari a 32,2 anni. Il dato del Belpaese, però, è in aumento rispetto al 2022 quando la media era pari a 32,2 anni. Questo valore sembra cozzare con un altro molto significativo: in Italia la pensione di vecchiaia è a 67 anni e dal 2027 comincerà a salire man mano che la vita media si allunga. Sulla carta, il sistema pensionistico italiano è tra quelli che consentono di abbandonare il lavoro molto dopo rispetto alla media europea. Come è possibile, allora, che nonostante tutto in Italia si lavori meno?
Età media primo impiego
Una risposta riguarda l’età media in cui cominciano a lavorare gli italiani. Basti pensare che il primo giorno di lavoro per un uomo italiano è a 24 anni; per una donna le cose arrivano ancora più tardi: in media 26,5 anni. Nel resto d’Europa la media, invece, è di circa 22 anni. Basti pensare, ad esempio, che in Gran Bretagna un giovane inizia a lavorare già a 19,7 anni (le donne a 21); in Francia a 21,6 anni. Persino in Grecia il primo giorno di lavoro arriva molto prima che da noi: a 22,6 anni. A questo fenomeno, inoltre, bisogna aggiungere che nella fascia di età 15-24 anni si raggruppa un enorme numero di “Neet” (cioè coloro che non studiano né cercano lavoro): oltre il 25 per cento degli italiani. Cosa vuol dire questo: che un giovane su quattro non è lavorativamente attivo. Come mai si inizia a lavorare cosi tardi?
Essenzialmente per due fattori: la formazione e il livello di tassazione del lavoro. La scuola italiana finisce molto tardi. Non solo il sistema di istruzione primario e secondario, il diploma, anche la stessa università. In Italia il numero dei laureati è tra i più bassi della media europea: i trentenni con una laurea sono il 26,8 per cento rispetto a una media europea del 41 per cento. E molti di loro sono “fuori corso”, cioè impiegano più del necessario per arrivare al traguardo. Una volta laureati, il sistema di reclutamento raramente prevede subito un contratto di lavoro ordinario visto che si privilegiano stage o internship che nulla incidono sul periodo lavorativo. Il secondo motivo è la tassazione. In Italia il lavoro subisce una tassazione molto vicina al 47 per cento, rispetto ad una media Ocse del 36 per cento. Questo elemento, combinato con un livello salariale tra i più bassi d’Europa, spiega bene perché spesso i giovani preferiscono tenersi lontano dal mercato del lavoro.
Pensioni, un disastro
Tutto ciò ha un effetto disastroso sul sistema pensionistico italiano. Come da tempo spiegano gli esperti di demografia e conti pubblici è assolutamente necessario allargare la “base lavorativa” nel Belpaese. Ciò significa che urge aumentare il numero di lavoratori. Ad oggi, infatti, i pensionati sono 22.772.000 e i lavoratori sono 23.099.000. Con questi numeri, anche aumentando l’età della pensione il sistema non è sostenibile. Bisogna dunque aumentare gli anni di lavoro ma anche il numero dei lavoratori. La politica in questa nicchia: fa finta di avere soluzioni a portata di mano smentite clamorosamente dai dati. Le varie eccezioni approvate negli ultimi anni (da quota cento in poi) hanno contribuito a rendere i numeri ancora più gravi. Si torna dunque al punto di partenza: aumentare il numero di lavoratori. Ma in che modo?
Siamo chiari: non esistono ricette da miracoli. Il declino demografico si può invertire solo con serie politiche di inclusione che produrranno i loro effetti non prima di venti anni. Qualcosa però si può cominciare a fare. Ad esempio, in Italia ci sono circa 3 milioni di lavoratori in nero. Se si portassero allo scoperto, sarebbe un bel toccasana per i conti previdenziali del Paese. Come? Magari detassando fortemente le assunzioni insieme ad un sistema di controlli capillari e di sanzioni certe. Ancora, un’azione rapida sarebbe favorire l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro: il tasso di occupazione femminile in Italia è meno del 50 per cento. Non dimentichiamo politiche di welfare per incentivare la crescita demografica. Infine, ma non ultima, una seria riforma dell’istruzione e della formazione universitaria. Cioè vuol dire non “regalare” le lauree ma favorire una formazione in linea con gli standard europei dei giovani italiani. Servirebbe un serio patto tra maggioranza e opposizione, cosa impossibile in un Paese in perenne campagna elettorale.
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